“La ragazza di fuoco” riesce a centrare questo difficile bersaglio.
Il merito, per dare a Cesare quel che gli compete, va in primis alla scrittrice Suzanne Collins (ancora una volta in libreria spopola una gentile signora, maschietti dove siete finiti?), autrice della trilogia di Hunger Games, qui giunta al suo secondo capitolo cinematografico. Lontana mille miglia dalla ridondanza barocca della Rowlings e dalla stucchevolezza per ipoglicemici di Stephanie Meyer e delle sue epigoni, la prosa di Suzanne, di cui a questo punto varrebbe forse la pena di ripescare la misconosciuta pentalogia di Underland, è asciutta, veloce, serrata, coinvolgente. Esattamente lo stesso si può dire della regia di Francis Lawrence, cresciuto nel mondo dei videoclip musicali (caratteristica comune a tanti registi della nuova generazione) ma che vanta già, dopo l'esordio con “Constantine” (uno dei migliori ruoli di Keanu Reeves di sempre), un curriculum in cui figura l'ottimo “Io sono leggenda” con Will Smith. E' subentrato a Gary Ross, regista del primo episodio della saga, e toccheranno a lui, preparatevi, anche i due capitoli finali nei quali è stata divisa, come ormai pare vada di moda, la storia narrata nell'ultimo romanzo.
“Nessuno vince gli Hunger Games. Ci sono dei sopravvissuti, ma nessun vincitore”. La frase, una delle più belle del copione, è pronunciata da Haymitch Abernathy, vincitore della cinquantesima edizione dei giochi, divenuto mentore di Katniss e Peeta e interpretato da un ottimo Woody Harrelson. Uno non si aspetterebbe di trovare tanta pronfondità in un film d'azione e di sentimenti destinato a un pubblico giovane. Proprio per questo la forza di alcuni contenuti che La ragazza di fuoco riesce a trasmettere ti sorprende e disorienta, grazie anche all'intensità nella recitazione dei giovani e bravissimi protagonisti, fiancheggiati da caratteristi di razza come Harrelson, un Donald Sutherland che non si decide ad andare in pensione (e meno male!), Paula Malcomson (Deadwood, Caprica, Sons of Anarchy) e la mia preferita: Elizabeth Banks. Impagabile nel ruolo di Effie, acchittata come una Lady Gaga prima edizione ma in grado di svelare poco a poco un'insospettabile densità emotiva che riesce a superare indenne la barriera del maquillage da cortigiana del futuro e dei frizzi. Unica eccezione è il bellone Liam Hemsworth, che ricorda nelle espressioni lignee e stereotipate le carenze recitative ormai assodate di illustri predecessori, come Harrison Ford e Ben Affleck. Per quanto ce la metta tutta, l'attore australiano ancora non ce la fa a sfondare l'obiettivo e a conquistare il cuore del pubblico, figuriamoci a tenersi quello di Katniss, una Jennifer Lawrence intensissima. Mi fermo qui, per evitare uno spoiler che in questo momento mi fa prudere le dita e ne approfitto per tornare ad occuparmi di sentimenti.
Era ora. Il film, una volta tanto, è libero dall'abituale infornata di doppi sensi sessuali, sensualità poco adatta ai preadolescenti e violenza gratuita. La trama, intendiamoci bene, contiene una generosa dose d'azione e non mancano morti, feriti e qualche scontro violento. Grande assente, però, ed è un gran merito di regista e sceneggiatore, è un qualsiasi compiacimento nel mostrarle. Chi muore, durante il film, lo fa con una dignità antica che ricorda le pellicole di qualche decennio fa, senza per questo rinunciare alla spettacolarità garantita da effetti speciali ben realizzati, che però non rubano mai la scena agli attori umani.
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