the last stand si colloca in una specie purgatorio senza fine
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the last stand si colloca in una specie purgatorio senza fine
Recuperatelo, tu e Vespa, perché anche nel caso non vi piacesse è comunque un'esperienza visiva fuori dal comune.
Comunque, mi sono rivisto un po' di The Hobbit, e purtroppo devo dire che questa volta non mi ha colpito particolarmente. No, non mi riferisco alla trama, alla crisi identitaria della narrazione bla bla. Parlo semplicemente di scenografia.
Dopo aver nuovamente visionato spezzoni della trilogia, ho compreso quale sia il problema tecnico di questo Hobbit: manca l'artigianalità e il calore delle ambientazioni del LOTR. Questo perché Jackson non valorizza la maestosità delle colline brulle della Nuova Zelanda per fare un esempio, è un continuo abuso della CGI sparata in massima definizione. Parliamo di computer grafica di altissima qualità, però è talmente definita che senza l'illusione del 3D pare quasi pacchiana.
Parlando di cose serie, mi sono guardato un altro film. Ovviamente contiene spoiler, quindi evitate se non l'avete visto.
Un borghese piccolo piccolo, di M. Monicelli.
La pellicola, dopo aver presentato il cast tecnico come da vecchia scuola, si apre con una scena di pesca tra Antonio Vivaldi, impiegato presso il ministero, e il suo figlio Mario, neo-diplomato in ragioneria.
Il film presenta i vari elementi che caratterizzano il cinema di Monicelli, abbiamo quindi il neorealismo rosa che lo ha reso famoso, i dialoghi quotidiani che mantengono un forte legame con la realtà nonostante la verve comica e la rappresentazione della scena italiana del tempo leggermente grottesca.
La storia vuole raccontare di questo uomo, Antonio, tipico ritratto dell'italiano medio anni '70, un po' superficiale e dozzinale, pirata della strada, leggermente vanaglorioso e con un forte attaccamento per la famiglia, ovviamente profondamente cattolica. Un uomo che nonostante i suoi limiti, per amor del figlio, sacrifica tutto quello che ha, dall'orgoglio alla fede, pur di dargli la possibilità di avere una vita migliore. Il tutto in salsa rosa, con satira leggera nei confronti delle istituzioni, della massoneria e dello stereotipo della famiglia italiana.
Poi si arriva al crollo. A metà del film Monicelli distrugge se stesso e si reinventa. La commedia sparisce e lascia entrare un dramma profondo e verace, il dolore più duro e sincero della famiglia. Il magnifico Alberto Sordi muta totalmente, i suoi lineamenti non sembrano più gli stessi, il suo tono di voce è pervaso da un forte senso di malinconia e malessere. Le scene con la moglie sono assolutamente strazianti, Monicelli non calca mai la mano a riguardo buttandola sul melodrammatico e giocando su un impianto sonoro invadente, ma descrive la realtà nel modo più crudo che gli riesce, servendosi di due grandi interpreti. Assistiamo alla totale distruzione del personaggio di Antonio Vivaldi, che non solo si riaffaccia al vero neorealismo per tracciare il marciume dell'Italia in quegli anni, abbracciando ogni campo dalla politica alla sfera personale, ma addirittura sfocia in un personaggio Hitchcockiano, dove il germe della follia si manifesta inesorabile rendendolo schizofrenico eppure così realistico. L'ultima mezz'ora è una continua pugnalata gelida come il ghiaccio, l'affresco italico diviene sempre più nero e profondo, causando nello spettatore un senso di empatia verso tutti e tre i personaggi: in Vivaldi, l'unico del quale conosciamo i sentimenti, della moglie, probabilmente immersa in un conflitto interiore, e del prigioniero, di cui non conosciamo la psiche, l'ipotetico rimorso, il flusso di coscienza.
Alberto Sordi è dio in questo film. Tra l'altro la pellicola presenta delle scene simboliche fenomenali, pertanto ne voglio ricordare almeno tre:
- quella casa sul lago, che prima rappresentava la promessa di una nuova casa con il figlio, diviene invece la prigione di quell'assassino. "Tu devi restare con me."
- La consegna della pensione a Vivaldi, con conseguente discorso. Dopo averlo assecondato, i suoi colleghi presto inizieranno ad ignorarlo, mentre lui si ritroverà a parlare da solo. È la rappresentazione dell'italiano di quel tempo, che urla il proprio dolore senza che nessuno lo ascolti, una società ipocrita dove ognuno pensa a sé;
- l'inseguimento del criminale è un capolavoro. Lento, granitico, meticoloso. Quell'uomo che prima guidava come un corridore accecato dalla fretta, ora è divenuto un sicario paziente e pulito.
Ed eccoci a quello splendido e tragico epilogo, un uomo distrutto che non ha più niente per cui vivere, abbandonato dalla società e oramai caduto nel baratro della follia, che decide di trovare un nuovo senso alla sua vita. È nato un mostro, ma non si tratta di una favola lontana dalla realtà, si tratta semplicemente dello specchio di una società dilaniata.
Quando si parla di Monicelli è giusto citare prima di tutto I soliti ignoti o L'armata Brancaleone, ma questo non toglie a Un Borghese piccolo piccolo il suo sacrosanto posto nell'olimpo.
Voto: 9/10
meraviglioso il Borghese di Monicelli, la prima volta che lo vidi mi ricordo mi procurava quasi letteralmente disagio fisico ..
Assolutamente, è ipnotico e opprimente, il tutto senza ricorrere agli stereotipi del thriller/horror. Geniale.
Ieri sera al cinema ho visto anche il terzo. Decisamente meglio del secondo, ovviamente grazie al fatto che abbia finalmente un plot diverso, e anche perchè Mr. Chow ha un ruolo praticamente da main.
6,5.
PS: Alcuni si sono persino alzati applaudendo come se fossero stati davanti all'ultimo capolavoro di Kubrick...
Mi sono visto La Grande Bellezza.
Promosso, ma con qualche incertezza. Registicamente parlando stupendo, il cosiddetto manierismo l'ho trovato comunque coerente con il concetto del carnevale notturno, come storia però ha delle lacune, domani scrivo giù qualcosa.
Più o meno è lo stesso che penso io: grande registicamente ma il fatto che non ci sia una vera e propria sceneggiatura forse non lo aiuta in certi momenti. Comunque il personaggio di Jep Gambardella mi è piaciuto moltissimo e ho apprezzato anche il fatto che Sorrentino sia finalmente riuscito, come regista, a fotografare l'Italia attuale: ovvero immersa nella vacuità più totale
La Grande Bellezza Di P. Sorrentino.
Come molti sanno, quest'ultima fatica del regista italiano è vista principalmente come un omaggio al maestro Fellini, in particolar modo a La Dolce Vita, pertanto non tornerò sull'argomento. Sin dalle prime battute del film è possibile vedere il sapiente contrasto che Sorrentino ha saputo creare nella disanima paesaggistica di Roma, risaltandone la bellezza architettonica e naturale nelle fasi diurne, conferendogli un'aura quasi sacrale e casta, una prospettiva che mette la vita umana quasi in secondo luogo, perfettamente integrata in quel luogo solenne. Di notte il registro cambia totalmente, se di giorno erano i monumenti ad arricchire le scene, qua invece abbiamo un caleidoscopio antropologico, composto da un fiume di lussuria e baldoria, uomini e donne di tutte che si tuffano in questo vortice di luci, dance e mondanità.
La mondanità, quel flusso di vacuità di cui il protagonista della vicenda, l'estroso Jep Gambardella con tanto di sigaretta in bocca e sorriso a 32 denti, si proclama il re. Il film quindi si delinea come un percorso di introspezione esistenzialista, spiega come la visione della vita cambi quando l'incombenza della morte si fa più opprimente e sentita, portando quindi ad un'inesorabile bilancio delle azioni compiute nella nostra esistenza, la classica domanda "Che cosa ho realizzato in tutti questi anni?" Jep comincia ad identificarsi in una sorta di recita, un carnevale Pirandelliano dove individui grotteschi e snob si crogiolano in festini e chiacchierate frivole. C'è chi è conscio di questa situazione e si adagia sugli allori, chi si costruisce un castello di menzogne e si convince di agire per una qualche sorta di impegno sociale e morale, chi vive per criticare e giudicare gli altri, chi vorrebbe fuggire da quel mondo ma non trova il coraggio. Qui purtroppo iniziano i problemi di una sceneggiatura a tratti interessante, ma decisamente ingenua e superficiale nel complesso. Questa mandria di individui eccentrici, nonostante la forte caratterizzazione visiva, non riesce spesso ad ottenere la dimensione umana necessaria per la dimensione neorealista a cui Sorrentino vorrebbe attingere. È difficile provare empatia per tali personaggi, così distanti e caricaturali.
Il percorso stesso del protagonista è brusco e non sempre coerente, abbiamo numerosi tentativi di dargli spessore, creando un conflitto tra la sua indole pigra e la sua vena artistica, ma non solo, si sviluppa in lui anche un senso di voglia di integrarsi nel mondo, nel vero mondo.
Sorrentino di tanto in tanto tira fuori dei dialoghi veramente geniali, come la discussione fra Stefania e lo stesso Jep nel terrazzo, oppure lo smascheramento dell'ipocrisia dettata dall'evento mondano per eccellenza, il funerale; anche le numerose frecciatine sociali e culturali che infarciscono la pellicola sono gustose. Ma in generale non assistiamo ad una vera fotografia della società italiana, quanto più ad una cartolina colorata ed esagerata, una deformazione a tratti voluta, a tratti degenerata. Le varie storie dei personaggi si concludono malamente, sottolineando un disegno inconcludente, vedi il personaggio di Verdone che non ha grossa solidità alle spalle nonostante il richiamo finale a Fellini [Toh, l'ho fatto alla fine], o il personaggio della Ferilli che si conclude bruscamente, forse troppo per definirsi davvero riuscito e completo.
Servillo offre una prestazione degna di nota, ma lo script non credo sia abbastanza maturo per arrivare all'obiettivo finale, difatti si conclude in modo piuttosto banale: l'incontro con una figura vera, guidata da reali e solidi valori, porta Jep a focalizzarsi sugli aspetti davvero importanti della sua esistenza, rievoca la bellezza nostalgica del suo amore giovanile, e ritrova così l'ispirazione per un nuovo romanzo, simbologia del senso della vita. Ma a conti fatti non mi convince, non rende merito al percorso creato e lascia con l'amaro in bocca. Quel "è solo un trucco" sembra quasi un'ammissione di Sorrentino di come tutta questa retorica sia un tentativo di mascherare la sua incertezza.
È davvero un peccato, perché registicamente il film è un gioiello, volutamente manierista e autoreferenziale per esaltare l'ossimoro di cui ho parlato all'inizio e che visivamente mette in risalto la grande bellezza di Roma, inoltre come ho detto molti dialoghi sono ben realizzati e ingegnosi, senza dubbio non si tratta di un film anonimo e privo di personalità.
Voto: 7/10
Ma questi difetti non vengono decontestualizzati pensando che è tratto da un libro?
Il fatto che la trama non sia compiuta e i personaggi facciano cagare può al massimo essere colpa di Larrson, non di Fincher.
Che poi io non sia d'accordo è un altro discorso.
E perché mai? Io il libro nemmeno l'ho letto, difatti non l'ho mai citato, ma se decidi di realizzare un film tratto da un'opera cartacea hai il dovere di aggiustare e adattare ciò che non va.
Il fatto che Larrson abbia toppato o meno come scrittore non preclude il fallimento della pellicola.
Il discorso del serial l'ho tirato fuori perché mi sembra chiaramente un'opera che avrebbe beneficiato di una struttura ad episodi, in modo da poter caratterizzare l'immane mole di personaggi e di far lievitare meglio il thriller.
Only God Forgives, di N.W. Refn.
Ero indeciso se fare questa recensione. Quando sono uscito dal cinema ero piuttosto perplesso e dubbioso, stordito da un'opera estremamente ermetica e fredda. Ora credo di aver focalizzato meglio il quadro generale, e provo a dare una dimensione all'ultima fatica del danese.
Il film si presenta come un revenge movie, ma in realtà abbandona ben presto questo sentiero per immergersi in un viaggio introspettivo e oscuro, un rapporto torbido tra madre e figlio e l'esegesi di un uomo che si crede dio. Ebbene, inutile prenderci in giro: se odiate Refn, potete smettere leggere qui. Questa è molto probabilmente la sua pellicola più personale e intimista, nel quale il suo stile dilatato assume la sua sfera più radicale, rimandando ai Lynch, ai Jorodowsky e ai Miike, cercando di fondere queste influenze nel suo percorso d'autore.
Parlare della storia è abbastanza inutile, in quanto la sceneggiatura è evanescente e può essere riassunta in poche righe. L'obiettivo che Refn si pone è quello di mettere in risalto il proprio cinema di essenze, ma questa volta non c'è il sentimentalismo di Drive o l'esuberanza di Bronson, la sua regia è gelida e senza cuore, totalmente estraniante da qualsiasi sentimento ed empatia. I personaggi sono molto distanti dallo spettatore, costretto a percorrere un viaggio disturbante ma allo stesso tempo immerso in una sorta di macabra sacralità, quasi ricordano Kitano nella loro apatia e nella loro dimensione fortemente caricaturale.
Le chiavi di lettura che il regista offre sono molteplici, la mera vendetta viene messa da parte per esaltare altri aspetti, l'arte della violenza stessa che già ha trattato più volte in passato, ma anche il timore referenziale provato dal personaggio di Gosling che qui appare in tutte le sue ombre, succube di quella figura matriarcale così imponente, uno scontro affettivo che affonda le proprie radici nel sangue e nel dolore. Qui però purtroppo si incappa forse nell'esagerazione, dovuta soprattutto a un rapporto lasciato troppo a se stesso che non riesce a comunicare molto. Il poliziotto rappresenta il classico personaggio senza storia e senza identità che Refn ama tanto inserire nella maggior parte dei suoi film, una figura difficile da identificare, una reincarnazione divina oppure un semplice giustiziere con un certo retrogusto sadico?
Come ho detto all'inizio, questo Solo Dio Perdona è quindi un viaggio, una pellicola che cerca di trascendere lo spazio tempo e si immerge in un limbo allucinogeno, un effetto che il regista riesce a creare grazie ad un impianto di illuminazione davvero incredibile, un contrasto di ombre e colori sorprendente che crea un'atmosfera surreale, quasi ipnotica. Il concept di fondo è quello di voler raggiungere una sorta di nowhere, un punto di incontro tra inferno e paradiso, giorno e notte, bene e male, quindi la scelta di Bangkok, una meta dove la cultura orientale si mischia a quella occidentale, è indubbiamente azzeccata.
Eppure non si può ignorare uno spettro di stanchezza nella pellicola, che nonostante i soli 90 minuti sembra accusare i tempi più volte, ma soprattutto si respira una certa aura di pretenziosità nell'opera. È naturale chiedersi se questo viaggio abbia davvero comunicato qualcosa, o se sia stato un vortice vacuo e inconsistente, dando così ragione alle feroci critiche di manierismo e pomposità. Non c'è una vera morale, non c'è nemmeno una vera crescita degli attori, è un labirinto nel quale temo che perfino il regista stesso si sia perso.
È difficile quindi fare un bilancio di questo film. Da una parte abbiamo una direzione artistica matura e valorizzata, dall'altra un'analisi esistenziale discutibile e non priva di forzature. Si può dire di tutto e di più: pomposo, visionario, autoreferenziale, innovativo, sconclusionato, profondo. Qua Nicolas è controverso come non mai. Di certo siamo lontani dalla naturalezza con cui un maestro come Lynch si addentra nel mondo della mente.
Se già Refn non vi piace lo odierete a morte, se lo amate rimarrete incantanti, se invece simpatizzate e basta come me... beh, ci si vede nel limbo.
Voto: 6/10
alien e aliens belli tutti e 2. con questa fanno 2 volte che inizio l'intera saga. prima di qualche anno fa non sapevo che faccia avessero questi alienozzi ma un amico di mio fratello ci prestò la quadrilogy completa in dvd e quindi colsi l'occasione. l'unica pecca, non dei film però, è che li sto riguardando oggi dove gli effetti speciali sono migliori ed essendo abituato così non posso apprezzarli come capolavori. pazienza, l'importante è che siano ottimi film da vedere.
ps: i primi 20-30 minuti del primo sono sempre di una noia mortale
Da quando i film tratti da libri superano i libri stessi?
La struttura ad episodi ci sarà, ci sono altri due libri e, di conseguenza, altri due film.
L'autore meditava su una serie di 12 volumi ma è morto durante la stesura del quarto.
Negli altri film si svilupperanno meglio le vicende amorose dei protagonisti e la loro psicologia, nonchè si scoprirà di più sul loro passato.
How about no