La base è il sempreverde “Chi fa da sé fa per tre”. Ci buttiamo dentro anche l’arte “di arrangiarsi” tutta italiana, uniamo il talento (tanto) e lo spirito di sacrificio, con un ampia manciata di voglia di fare. Lasciamo amalgamare per bene ed ecco gli indie games. Dove, ovviamente, indie sta per indipendente. Ovvero un gioco pensato, realizzato e distribuito contando unicamente, o quasi, sulle proprie forze, senza ricorrere all’intervento dei publisher: mega corporazioni del male che ormai non riescono più a guardare oltre al facile guadagnano e che hanno quasi ridotto a zero i rischi di fallimento. Brutte persone, insomma.
E invece gli indipendenti no. Sganciati dalla logica dei publisher (che spesso somiglia ad un giogo), questi artigiani del videogioco propongono novità coraggiose, si infilano con tutte le scarpe in quelle nicchie di mercato snobbate da tanto tempo e spesso riescono a guardare negli occhi anche produzioni più “alte” e costose. Ma quanta fatica. Ci sono i soldi da recuperare, le tecnologie da utilizzare, reperire i talenti, inventarsi PR, distributori e tanto altro. Tutte cose che i publisher hanno “in pancia” per loro costituzione, ma che i produttori indipendenti devono costruire giorno per giorno. E non senza intoppi clamorosi.
Certo, rispetto a qualche anno fa anche in questo campo le cose sono progredite e ora alcuni pezzi di questo immenso puzzle sono più accessibili. Per esempio, grazie a piattaforme di crowdfunding come Kickstarter puoi chiedere direttamente i soldi per il progetto all’utente finale. Presentando un’idea del gioco, magari con una demo iniziale o un video introduttivo ad effetto, puoi attirare una massa di persone interessate al progetto (in gergo, i backers) che possono finanziarlo più o meno “alla cieca”.
Anche da un punto di vista tecnologico ci sono più strumenti a disposizione: motori grafici “chiavi in mano” a costi non proibitivi, librerie grafiche e animazioni pronte per l’uso e molti professionisti del settore disposti a lanciarsi in progetti più piccoli, ma innovativi, spinti dalla voglia di rimettersi in gioco per davvero. Ma alla base serve davvero tanto lavoro e capacità, soprattutto perché si opera all’interno di un ambiente che tende a non perdonare l’eccessiva improvvisazione.
E dal momento che in Italia non manca nessuno degli ingredienti di cui sopra, ecco che anche i nostri sviluppatori si presentano agguerriti, con prodotti che niente hanno da invidiare alle produzioni d’oltreoceano. E’ il caso, per esempio, di The Town of Light, gioco dell’italianissima LKA che ha parlato del tema della malattia mentale e propone un’avventura che si svolge all’interno dell’ex manicomio di Volterra. Oppure i catanesi produttori di Remothered, un horror game che i fans hanno adorato fin dal primo incontro e che ormai è quasi pronto per il lancio ufficiale.
Insomma, un movimento ben avviato per il mercato italiano, che ora ha bisogno di farsi conoscere al grande pubblico e che AESVI, l'associazione italiana di settore, ha deciso di prendere sotto la propria "ala" proprio per dare loro una vetrina di tutto rispetto, e non solo. Proprio questo fine settimana, alla Gamesweek milanese (Fiera di Rho dal 29 Settembre al 1 Ottobre), potrete incontrare tanti di questi giovani talenti, parlare direttamente con loro per scambiare pareri, chiedere consigli e, perché no, candidarvi per proporre qualche nuova idea. O, più semplicemente, toccare con mano alcuni di questi piccoli, grandi, tesori. Potrete vedere, per esempio, una versione 8 bit di una Milano in stile GTA grazie all’idea di Emmanuele Tornisciolo e del suo “Milanoir”, oppure immergervi nella realtà virtuale per cercare di capire cosa si può provare nel guidare una SuperBike con SBK VR.
Oppure ancora parlare di Terramars con Elisa di Lorenzo, una delle più esperte sviluppatrici di videogiochi in Italia, che assieme al suo team di sviluppo (gli Untold Games) hanno sviluppato uno dei 50 giochi per la Realtà Virtuale che Sony ha scelto per accompagnare il lancio del suo progetto VR. Terramars prende in esame le possibili difficoltà che avranno i primi astronauti che arriveranno a posare piede su Marte e si pone più come una simulazione vera e propria che come classico videogame, tanto che il team si sta avvalendo della collaborazione di alcuni esperti dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea), in modo da proporre al giocatore un’esperienza quanto più vicina ad una possibile realtà. Un caso interessante, proprio quello degli Untold Games, perché al loro interno lavora anche Flavio Parenti, il noto attore italiano che prima di tanti altri ha capito le potenzialità del gioco anche a livello narrativo e di “unione” proprio tra cinema e videogioco.
Ma attenzione, il videogioco non è da intendersi come una semplice forma di interazione ludica, ma anche uno strumento capace di prendere il giocatore per mano e condurlo anche alla conoscenza e all’istruzione. Spesso anche di cose davvero molto importanti, come per esempio Relive, un progetto davvero molto interessante e istruttivo che attraverso le meccaniche classiche del videogioco guida il giocatore/utente alla corretta esecuzione di un massaggio cardio polmonare.
Gamification è la parola d’ordine. Inserire elementi di gioco in contesti altrimenti poco attrattivi e sicuramente meno interessanti e divertenti. Ed ecco che grazie al gioco e alla realtà virtuale possiamo calarci nella Bologna del XIII e vedere da vicino la Basilica di Santo Stefano e le torri gentilizie Asinelli e Garisenda, o vivere in prima persona e in maniera del tutto interattiva alcune delle storie più importanti nella lotta al nazifascismo tra il settembre del 43 e l’aprile del 45. Giochi per istruire, quindi, ma anche per capire. Come Blind, titolo davvero molto coraggioso che ci pone nelle vesti di un ragazza cieca che dovrà fuggire da una magione utilizzando i sensi a disposizione.
Insomma, se avete ancora la concezione di videogioco come i robusti cabinati di un tempo dove i ragazzini si assiepavano per interi pomeriggi, allora vi state perdendo delle vere e proprie opere d’arte. Il videogioco ora più che mai sta toccando vette d’eccellenza e di creatività insperate e bisogna dare atto a questi giovani (ma anche meno) sviluppatori il coraggio di affacciarsi all’interno di un ambiente difficile e competitivo, ma forse proprio per questo ricco di possibilità. Nella speranza, ovviamente, che lo Stato italiano inizi a comprendere a fondo le enormi potenzialità di questo movimento e dell’incredibile balzo in avanti che questi potrebbero farci fare anche nei confronti di una comunità europea che vede nazioni come Francia e Inghilterra avanti anni luce.
Per comprendere meglio il fenomeno Indie e conoscere alcune delle meccaniche che muovono animano il movimento abbiamo deciso di rivolgere alcune domande direttamente ai protagonisti. Abbiamo parlato con Thalita Malagò, segretario generale di AESVI e con Chris Darril, responsabile del progetto Remothered, di cui vi abbiamo già accennato qualche riga fa. Iniziamo proprio da lui.
Chris, il progetto Remothered è stato interamente finanziato da voi, internamente. Come mai non avete fatto come tanti altri sviluppatori indipendenti, che si sono rivolti alle piattaforme crowdfunding?
Perché rispetto agli inizi il crowdfunding si è in qualche modo evoluto e ora tende a premiare maggiormente l’intervento dei grandi nomi e meno i progetti originali e meno conosciuti. E se per caso il progetto non arriva a raggiungere la cifra stabilita rischia di essere percepito come un fallimento, agli occhi dei videogiocatori. Può essere pericoloso e ho preferito invece unire le forze della mia Darril Arts con quelle degli Stormind Games e finanziare autonomamente il nostro lavoro
Ma se adesso arrivasse un publisher importante?
Direi di no. Sinceramente. Ho rifiutato all'inizio dello sviluppo del gioco e lo farei ancora adesso. Anzi, ora avrei anche maggiori motivazioni, dal momento che Remothered ha finalmente preso la forma che vogliamo. Non accetterei mai imposizioni dall'alto. Siamo arrivati al classico "O la va, o la spacca", ma il responso del pubblico su Steam Greenlight è stato davvero incoraggiante, tanto che stiamo già pensando a mettere in cantiere un secondo capitolo.
Da quanti anni lavorate al progetto?
Quella di Remothered è un'idea che ho iniziato a scarabocchiare su carta una decina di anni fa, ma siamo entrati in pre produzione da circa due anni e in produzione vera e propria da un anno e mezzo. Non è semplice, bisogna lavorare in mezzo a mille problemi di varia natura, ma siamo davvero soddisfatti.
Da quante persone è formato il team di lavoro?
E' un valore oscillante, diciamo una quindicina di persone, considerando anche gli stagisti che in alcuni periodo ci danno una mano.
Eppure ho visto che, anche se in economia, non vi siete fatti mancare doppiatori di un certo livello e un responsabile della colonna sonora come Nobuko Toda che ha lavorato a giochi come Final Fantasy. Mica roba da niente.
Si, è vero. Ho avuto la fortuna di conoscere Nobuko Toda durante la lavorazione di Nightcry e non appena ho avuto la possibilità le ho chiesto se volesse partecipare al progetto. Ha detto subito di si e per noi è stata un'iniezione di estrema fiducia. Esistono tanti professionisti di questo mondo che sono disposti anche a lavorare su progetti più piccoli, ma in cui vedono delle potenzialità. Il problema è quello di far coincidere i tempi dei loro innumerevoli impegni. Però la fortuna di poter lavorare a distanza riesce a coprire molti di questi problemi. Quindi anche grazie alla collaborazione di Luca Balboni, abbiamo una colonna sonora con una firma molto importante e dei doppiatori inglesi che sono delle vere e proprie garanzie all'interno di questo mondo.