Figlio di Saul è innanzitutto un resoconto duro e senza sconti per lo spettatore, capace di portare come nessun altro la logica industriale della catena di montaggio della morte, vista dalla prospettiva di un membro dei sonderkommando, i prigionieri che si sporcavano le mani al posto dei carnefici, supervisionando l'ingresso e l'uscita dalle camere a gas, mentendo all'ingresso delle docce, pulendo il sangue, bruciando i cadaveri.Saul fa parte di questo terribile gruppo di prigionieri e ha già interiorizzato la missione disumanizzante della sua piccola casta: godere degli infinitesimali privilegi che comporta (primo tra tutti, non finire nelle docce), lavorare duro, tentare di sopravvivere il più possibile mentre si trascinano corpi e si pulisce il sangue. Sul volto di Géza Rohrig c'è tutta la durezza e la vacuità di chi punta diventare invisibile, fuori e dentro, schivando il sadismo delle SS e inanellando un giorno dietro l'altro, un carico di cadaveri dietro l'altro.
A un certo punto però qualcosa si spezza e Saul vede (o meglio, crede di vedere) l'amato figlio, scampato per caso alle docce. Il ragazzino morirà poco dopo, ma l'equilibrio indifferente di Saul è compromesso: mentre scendiamo nell'inferno del campo ci facciamo strada nella sua lucida follia, quella di voler seppellire il ragazzo secondo il rito ebraico, scovando tra i prigionieri un rabbino, occultandone il cadavere, seppellendolo, mentre i prigionieri organizzano l'ennesimo tentativo di fuga.
Il figlio di Saul è indubbiamente un film difficile da gestire, un prodotto autoriale dalla forma rigorosa e sfiancante, che però nasconde in sé una approccio cinematografico irreprensibile e un contenuto così pregno di senso che difficilmente le altre uscite della settimana non parranno superficiali al confronto. Consigliato a chiunque pensi di poter gestire questa discesa nell'incubo.