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Recensione Benvenuti a Marwen

Una incredibile storia vera che Zemeckis non riesce a sfruttare fino in fondo
Livio Ricciardelli Di Livio Ricciardelli(21 dicembre 2018)

Robert Zemeckis ormai ci ha abituati a film dalla tecnica mista.Pellicole come "Polar Express" o "Beowulf" con attori a tratti scarsamente riconoscibili, sono diventati col tempo la sua cifra distintiva. Tanto da portare tutto il suo team e la spielberghiana DreamWorks a sperimentare molto sul fronte dell'action picture e ad elevare il regista Premio Oscar (per "Forrest Gump", nel 1995) a principale artista cinematografico per quanto concerne questo tipo di tecnica filmica.Su questa scia e partendo da questa base valoriale si colloca il nuovo "Benvenuti a Marwen", trasposizione prettamente cinematografica di un documentario del 2010 su quella che risulta essere un'incredibile storia vera.

La storia è infatti quella di Mark Hogancamp, illustratore newyorchese che nel 2000 dovette rinunciare alla sua carriera di disegnatore a causa di un'aggressione (presumibilmente di stampo omofobo) che lo costrinse a dover abbandonare del tutto la sua avviata carriera. Nel suo trauma però Hogancamp trova un rifugio. Una dipendenza che lo porterà sia a reinventarsi sia (però) ad ancorarsi ancor di più al suo passato personale: inventa un mondo tutto suo. E da disegnatore diventa un fotografo di miniature, di pupazzi che rappresentano tutti i personaggi della sua vita in una città immaginaria chiamata Marwen, nel Belgio della Seconda Guerra Mondiale. In quest'ottica, i nazisti del villaggio immaginario sono i suoi reali aggressori, così come tutte le donne che accompagnano il suo alter ego bambolesco sono in realtà le donne che lo accudiscono (dall'ospedale fino alla vita di tutti i giorni) nel suo percorso verso il reinserimento.

Il film ha dunque una tecnica mista che consente a Zemeckis di mescolare la sua formazione cinematografica "classica" (evidente per esempio nella citazione finale da "Ritorno al Futuro") a quella di nuovo regista di cartoni animati e pupazzi in movimento. Se Steve Carell (vera cartina di tornasole di questa pellicola) appare dunque nella sua versione in carne ossa accanto a quella del suo alter ego animato, anche Zemeckis realizza un film che è una voluta via di mezzo tra realtà e immaginazione, tra futuro e passato.

"Benvenuti a Marwen" dunque non è solo un'opera prettamente zemeckiana nel suo non essere simile alle sue pellicole precedenti (nella misura in cui in questo film si respira una certa aria di anni '80 e post "1941 - Allarme a Hollywood), ma anche un film profondamente di Steve Carell. Interprete che sta vivendo un periodo d'oro, in cui sembra essersi svincolato definitivamente della sua maschera comica grazie a registi "seri" e drammatici come Linklater, McKay e van Groeningen. E che ritorna in questo film sia a rappresentare l'uomo complesso e tormentato a seguito di un'aggressione omofoba, sia il nerd appassionato di soldatini che vive in un mondo tutto suo e al limite della socialità.

Benvenuti a Marwen
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Nella sostanza si può dunque definire "Benvenuti a Marwen" come un'ulteriore passo della filmografia di un regista come Zemeckis. Che per guardare in avanti, ha sempre bisogno di attingere un po' dal passato, ma con strumenti ultra-tecnici e strettamente legati al futuro. Fornendo in questo modo senz'altro un contributo (in serie) alla storia del cinema, ma anche singoli film spesso poco caratterizzati o difficilmente collocabili e dal senso sbrigativo. Proprio come "Benvenuti a Marwen".