Andatelo a vedere, comunque. “Nella notte dello Sfogo non c'è posto per gli eroi” sentenzia gelido uno dei pochi personaggi totalmente cattivi del film, prima del finale. Non è così, però, e la sceneggiatura di Del Monaco, semmai, dimostra l'esatto contrario.
Due giorni dopo aver visto l'anteprima del film, abbiamo avuto occasione di incontrare Jason Blum presso la Casa del Cinema di Roma, durante un'animata master-class al termine della quale il simpatico produttore americano, dopo aver risposto alle domande degli organizzatori, si è concesso anche a quelle della folta platea di giornalisti intervenuta.
C'è comunque un limite verso il basso, quello dei cinque milioni di dollari, cifra che Jason ritiene essere il minimo spendibile per realizzare un prodotto di buona qualità (l'eccezione dei quindicimila dollari, spesi per girare Paranormal Activity sono l'eccezione, a quanto sembra, che conferma la regola). Sotto quella soglia, ha spiegato, si rischia di fare la fine di altrettanti Roger Corman del ventunesimo secolo, girando titoli che, spesso, saranno ricordati più per l'esigua quantità di denaro spesa per realizzarli che per la loro qualità artistica (l'allusione al modello di business della casa di produzione Asylum, divenuta famigerata negli ultimi anni per titoli come Jurassic Shark o Transmorphers, credo non sia affatto casuale...). L'unico aspetto sul quale, almeno per il momento, non è possibile operare con budget limitati è il marketing. Commercializzare un film su vasta scala costa tanto, a prescindere da quanto si sia speso per realizzarlo. Pensando a successi pilotati dalla rete come il primo Blair Witch Project e Cloverfield, si sarebbe tentati di non credergli del tutto, però. Ascoltandolo parlare, si matura l'impressione di un giovane uomo pragmatico, attento al risultato più che ai processi, teso all'obiettivo e poco incline a qualsiasi forma di spreco.
Capace, mai come oggi che la crisi economica e la pirateria erodono la capacità di spesa delle major e i profitti della distribuzione, di mostrare anche ai grandi vecchi di Hollywood un modello efficiente e produttivo di fare cinema. Steve Martin, a inizio carriera, lo aiutò inconsapevolmente scrivendo una recensione che lui trasformò nella copertina di uno script che intendeva mandare in produzione. Con Spielberg, invece, lavorò ai tempi del primo Paranormal Activity. Del film, si sa, esistono due diversi finali. Jason Blum ha confessato di preferire da sempre quello originale scritto dal regista e sceneggiatore israeliano Oren Peli. Pare che però Steven Spielberg sia intervenuto suggerendo un finale diverso, che accorcia il film di sette minuti, che conclude la versione distribuita in sala. La discussione tra Peli e Blum si fece accesa ma, alla fine, quest'ultimo dice di averla spuntata con un argomento inoppugnabile. “Sai, Oren” pare abbia detto all'amico e collega “Tu sei un giovane cineasta al tuo primo film, alla ricerca di un'affermazione in un settore così difficile e lui... beh, lui è Steven Spielberg!”.
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Sorpresa! Succede che uno come me, svezzato dal nichilismo post apocalittico delle due "fughe" metropolitane di Jena Plissken (Snake nell'originale: era ancora tempo di doppiaggi approssimativi capaci di produrre abomini come la "guerra dei Quoti") di John Carpenter, che sente ancora nelle orecchie l'eco di quel provocatorio sbattere di bottiglie di birra vuote con cantilena annessa che precede il finale de I guerrieri della notte di Walter Hil, pensi di andare a vedere un film assolutamente in linea con quel filone e scopra tutt'altro. Ecco la magia di James Del Monaco, giunto al secondo capitolo della saga (la serialità sembra prerogativa dei registi della scuderia di Jason Blume) de La notte del giudizio. Anarchia, come e più del primo capitolo, coglie di sorpresa lo spettatore, ribaltando l'impostazione tinta di nero tipica dei lungometraggi sul futuro prossimo o dei torture porn alla Hostel dell'ultimo ventennio, e costringendo lo spettatore ad ammettere con se stesso che il lieto fine è legato, insospettabilmente, all'azione di pietà e misericordia, più che di una vendetta alla Kurosawa. Può esserci dunque una morale che giustifichi la violenza della trama ed essere in grado di dire qualcosa di nuovo, di drammaticamente opposto e per questo ancor più anticonformista, ai valori propugnati al popolo della rete dalla vulgata massmediatica, imbevuta dei falsi miti del progresso tecnocratico? La risposta è un sì deciso, almeno secondo Del Monaco, è sì. Basta questo a giustificare la visione del film secondo me. Ma c'è anche molto di più, ovviamente.