Non era un sussurro, come le voci di poco prima. Karen colse distintamente il lamento straziante, lacerante, anche se aveva qualcosa in comune con quelle che il ragazzo chiamava eco: sembrava anche quello provenire sia da distanze siderali sia da dietro la panchina. La donna, ripresasi dallo stupore, fissò il giovane, e si meravigliò nel vedere una lacrima che rigava il suo splendido e segnato volto.
“Speravo avessimo più tempo…ma non indugiamo, voglio ancora parlare con te.”
“Cos’era quella voce?”
Karen era ansiosa. La sofferenza dell’uomo che aveva urlato era così limpida da farla stare male.
“Credimi, avrai presto la tua risposta. Ma ora sarei felice se potessimo continuare la discussione. Hai visto l’abito in vetrina mentre passeggiavi con Miguel, non è vero?”
La sua voce aveva di nuovo assunto quel caldo tono suadente, e Karen fu incoraggiata a continuare.
“Sì, mi sono fermata ad ammirare il vestito, e Miguel mi ha cinta a sé, dicendomi che, se avessi voluto, sarebbe stato mio. Poi mi ha baciata.”
“È stato allora che la commessa ha tolto l’abito dalla vetrina, dandolo al cliente nascosto dal manichino sino ad un attimo prima, giusto?”
Karen abbassò di nuovo lo sguardo. Non riusciva a capacitarsi di ciò che aveva fatto. Una lacrima scese sulla sua guancia, e per un istante, sul volto del giovane, parve apparire un’espressione di sollievo.
“Lo stava comprando per me. Per scusarsi, dato che io mi sarei persa la festa di nostro figlio per via del lavoro. Ho aperto gli occhi, mentre stavo ancora baciando Miguel, e l’ho visto. Mi fissava impietrito dalla vetrina.”
“Per anni hai finto lavori, convegni, tutto per stare con altri uomini, mentre lui accudiva vostro figlio. Mi dispiace…”
Di nuovo quelle parole, stavolta legate ad una frase dopo la quale non si aspettava altro che insulti. Se quel giovane era davvero nell’auto, sarebbe stato più normale essere sollevati, apprendendo che schifo di essere umano era morto a causa sua. Invece continuava a scusarsi…
“Forza, continua.”
“È uscito fuori, il vestito in mano, la commessa dietro lui che sbraitava sull’articolo non pagato, ma lui non sentiva. Mi fissava con un disprezzo infinito. Non ha degnato Miguel di un solo sguardo, non ha detto una singola parola. Mi ha gettato addosso l’abito e si è voltato attraversando la strada.”
Karen fece una pausa. Non riusciva più a trattenere le lacrime. Aveva anteposto tutto nella vita alla sua famiglia. Non passava giorno in cui non la ritenesse un errore, un peso. Quanti uomini aveva avuto negli ultimi cinque anni? E Robert, lui, per tutto quel tempo, non aveva visto altro che una vittima in lei, una madre separata dal figlio e costretta a mantenere il marito.
“Ha venduto l’orologio di suo padre, per quell’abito. È giusto che tu lo sappia.”
Avrebbe preferito non saperlo. Quell’oggetto era quanto di più prezioso suo marito possedesse, un gioiello che sarebbe dovuto diventare il lascito per suo figlio. Sacrificato alla colpa nei confronti della moglie.
“L’hai inseguito, giusto? Non hai guardato, non hai pensato, sei solo corsa in mezzo alla strada.”
“Sì. E sei arrivato tu.”
Il giovane la guardò leggermente divertito. Karen tornò a meravigliarsi delle strane reazioni che il suo interlocutore mostrava nei momenti più inaspettati.
“Ti sbagli, mia cara. L’uomo che ti ha investito si chiama Bryan Howesly. Ha una frattura al braccio e un paio di costole rotte, ma se la caverà. Spero solo che quanto successo, un giorno, non lo conduca qui.”
La donna, certa delle sue intuizioni sino ad un attimo prima, era ormai in preda alla confusione. Era certa di stare parlando con il suo defunto assassino, un ragazzo sbandato, morto dopo averla investita nel pieno centro della città.
“Ma come puoi non essere…chi cazzo sei allora!?”
Karen iniziava ad essere visibilmente irritata. Stava per tornare ad inveire contro il giovane, quando nuove urla giunsero da luoghi lontani e vicini.
“Ti prego…quale dio può farci questo!”
“Il tempo sta per scadere, Karen. Come ho già fatto innumerevoli volte nella mia esistenza, non ho potuto far altro che cercare di alleviare le tue pene, renderti consapevole dei tuoi errori. Quanto ciò sarà utile, dipenderà da te. Ti prego, cerca, se puoi, di perdonarmi. Non ho mai voluto trascinarvi qui…”
Ormai si era decisamente persa. Di cosa stava parlando quello strano ragazzo?
“L’hai detto anche prima, più volte. Cosa ti devo perdonare? Non ti ho mai visto in tutta la mia vita, cosa mi hai fatto per doverti scusare?”
“Vi amo, vi ho sempre amati. E pensavo che fosse giusto rendervi più simili a noi. Credevo che il Padre sbagliasse, che il figlio potesse eccellere nel suo fallimento. Che presunzione!”
Ancora una lacrima rigò il suo volto, mentre la sua bocca si apriva in una nuova risata, triste e opprimente come mai Karen ne aveva sentite.
“Vi aveva creati felici, ignoranti, deboli. Dei bambini. Voleva farvi crescere, voleva darvi il tempo di apprendere. Io credevo solo che non fosse capace di fare altro. Vi diedi la capacità di discernere il bene e il male, la comprensione di ciò che vi circondava. Fu come dare una pistola ad un bimbo spiegandogli cosa è ma non di non usarla mai, se non in pericolo di vita. Odio, violenza, guerra. Avevo scatenato un orrore indefinibile nel mondo e nel cuore delle creature che amavo. Così meritai una punizione.”
Karen lo fissava allibita. Lo avrebbe preso certamente per un folle, se non si fosse trovata nel bel mezzo di un discorso in un luogo oltre la vita. Nel frattempo, poco lontano dalla panchina nel nulla, iniziarono a danzare oscure ed informi ombre. La donna le notò, e si rannicchiò vicino al ragazzo. Erano agghiaccianti.
“Stiamo per arrivare. Puoi perdonarmi? Puoi perdonare il folle che ha trascinato un’intera specie nella sua personale punizione?”
“Di cosa stai parlando!? Dove stiamo arrivando!?”
“Non l’hai ancora capito? A questo serviva il rimorso. Chi non si pente non tollera la sofferenza. Ecco a cosa ti ha portato la conoscenza che vi ho dato. Ecco l’Inferno!”
Davanti a Karen si spalancò l’orrore. Ammassi neri e informi sembrano confondersi con carni lacerate, volti di donne e uomini urlanti. Creature al di là delle più oscene fantasie inghiottivano e martoriavano ammassi di gente che gridava pietà. Alcuni vagavano nell’orrore lambiti appena dall’ombra e dal sangue.
“O mio dio!”
Karen era stravolta. Il suo abito scomparve, lasciandola nuda in quella landa di sofferenza. Il giovane al suo fianco guardava dritto avanti a sé, lasciando trasparire nei suoi occhi un dolore che non aveva pari neppure in quel luogo.
“C’è una cosa che voi umani non avete mai compreso. L’Inferno non è la vostra punizione, non è il castigo per i vizi dell’anima. L’Inferno è il mio tormento. E’ la condanna ad osservare eternamente i frutti del mio errore, ovvero la sofferenza di chi più amo. Parlo con ogni anima che giunge qui, prego che si pentano, che provino rimorso. Solo così possono sperare di non perdersi nell’ombra.”
Indicò le figure che si trascinavano lente. Si erano fatte vicine, e sembravano puntare verso lui e Karen. Quest’ultima, pur in preda al panico, rivolse la parola al suo compagno di viaggio.
“Mi stai dicendo che sei il diavolo?”
“Mi avete dato molti nomi, e quello è uno di essi. Il tentatore, il maligno, colui che gode della sofferenza umana, e che regna col ghigno negli inferi. Eccomi, Karen, guarda il glorioso e potente Satana! Osserva la sua gioia nel torturare le sue vittime! Guarda come gode del tuo tormento!”
Si accasciò al suolo, piangendo. Le anime pentite avevano ormai raggiunto Karen, che, lentamente, iniziò ad allontanarsi da lui.
“Perdonami, ti prego. Non ho potuto fare altro per te. Non ho potuto fare altro per nessuno.”
Immobile fissò la donna, finché questa non fu oltre il suo sguardo.
Jacob era stupito. C’era solo bianco intorno. Non riusciva a ricordare cosa stesse facendo prima di giungere in quel luogo.
“Gli hanno sparato!”
Da dove era giunta quella voce? Si voltò, cercando l’origine, ma l’unica cosa che vide fu una strana panchina, occupata da una giovane, bionda, pallida, bellissima e triste.
“Vieni a sederti Jacob. Assapora l’ultima eco. Dobbiamo parlare.