Bianco.
L’unico aggettivo che le veniva in mente per descrivere ciò che vedeva era “bianco”.
Si osservò, e notò subito che non indossava più il tailleur con cui era uscita dal lavoro assieme a Miguel. Al suo posto vi era un elegante abito lungo da sera, in quella che pareva essere pura seta, di un rosso sanguigno, che le fasciava il seno e i fianchi in maniera molto sensuale, lasciando scoperte abbondanti porzioni di schiena e spalle. Dopo un attimo di smarrimento, ricordò dove aveva già visto quell’abito. Era in una vetrina davanti alla quale era passata poco prima, e stava giusto meditando sull’acquisto, quando…
Quando?
Non riusciva a ricordare. Il nulla, il bianco completo che la circondava sembrava impedirle di concentrarsi. Cosa ci faceva un’attraente trentenne con un abito scollato da dodicimila dollari nel mezzo di un vaporoso e candido niente?
“Dannazione, non ce la fa!”
Un’impercettibile sussurro fece vibrare l’aria. Sembrava giungere da un luogo lontanissimo, ma, al contempo, le parve che la voce venisse da un punto molto vicino al suo volto.
La cosa più assurda di quella situazione era, tuttavia, il suo stato d’animo. Nonostante tutto, era stranamente serena, quasi tranquilla. Mosse un passo in avanti, e scoprì che le costose scarpe col tacco ai suoi piedi (anche quelle in vetrina con l’abito) non emettevano alcun rumore al contatto col suolo.
“Fate qualcosa!”
Di nuovo la voce, di nuovo quell’ambigua sensazione sulla sua provenienza. Volse lo sguardo a destra, poi a sinistra, ma ovunque era solo bianco.
“È solo un’eco, Karen, non preoccuparti. Presto svanirà. Fossi in te lo assaporerei, finché puoi udirlo.”
Stavolta non aveva dubbi, c’era qualcuno alle sue spalle. Si girò completamente, e non potette fare a meno di notare come l’apparizione di fronte a lei stonasse sia con l’ambiente che col suo prezioso abbigliamento.
Una panchina. Una normalissima panchina, di quelle che si trovano nei parchi pubblici. Il legno consumato, il ferro leggermente arrugginito, quella panchina sembrava un pezzo di realtà bruscamente catapultato in un sogno. Sopra sedeva un giovane. La fissava, e certamente era stato lui a parlare un secondo prima. Aveva lunghi capelli di un biondo splendente, vagamente arruffati, che coprivano in parte il volto. Sotto i ciuffi che cadevano scomposti sulla fronte Karen notò subito due sfavillanti occhi azzurri, penetranti. Tutto nel suo volto dava l’idea di una simmetrica perfezione passata, trascurata. Non poteva avere più di vent’anni, eppure qualcosa nel suo volto lasciava trasparire una travagliata esperienza che ne aveva segnato la perfezione. Vestiva con una camicia bianca, visibilmente sporca e lacerata in alcuni punti, abbottonata a metà del petto. Anche i pantaloni avevano lo stesso aspetto, con tagli all’altezza del ginocchio e della coscia. Non indossava scarpe. L’impressione che le diede fu quella di uno sventurato ragazzo, forse fuggito di casa, magari per un litigio col padre. Karen iniziò a muoversi verso la panchina, che sembrava distare dal lei non più di quattro o cinque metri.
“Chi sei tu?”
Il ragazzo la fissò per tutto il tragitto, continuando a guardarla negli occhi anche quando si fermò in piedi di fronte a lui. Da quella distanza la donna riuscì a cogliere meglio il suo sguardo. Non poteva esserne certa, ma le era sembrato di scorgere un lampo di incredibile tristezza, nel momento in cui si era fermata.
“Solo uno di passaggio, proprio come te. Siediti pure, purtroppo non dovrai attendere molto, e non sopporto di avere così poco tempo per parlare. Non è molto, ma mettiti pure comoda.”
Karen si sedette. La panchina era dura e scomoda come immaginava, e il suo primo pensiero andò al vestito. Sperava vivamente che non si rovinasse.
“Tranquilla, non può accadere nulla a quell’abito, e se non erro non è neppure tuo. Immaginavo che non sarebbe stata di tuo gradimento, del resto è uno dei motivi per cui non hai praticamente mai accompagnato Kevin al parco.”
Karen si voltò di scatto per fissarlo. Era alla sua destra, ed ora che erano entrambi seduti si era resa conto di quanto fosse alto, certamente più di un metro e ottanta.
“Cosa sai tu di me e di Kevin?”
Il ragazzo rise brevemente, un suono senza alcuna gioia che fece rabbrividire la donna.
“La vera domanda è: cosa sai tu di Kevin?”
Karen parve turbata.
“Io non…”
“Oggi è il suo compleanno. Cinque anni, un ometto ormai, come piace chiamarli a voi mamme. Cosa hai vissuto di lui in cinque anni? Le recite, le visite dal medico, il parco giochi, le feste, quante volte c’eri? Anche oggi…e di certo hai esaurito le occasioni per recuperare. Robert sarà distrutto…”
Karen trasalì leggermente. Una parte di lei era sconvolta dalle frasi del ragazzo, ma un’altra non riusciva a scrollarsi di dosso quell’apatia che si sentiva dentro da quando era arrivata in quel luogo.
“Cosa stai dicendo?”
Di nuovo la stessa, breve risata.
“Andiamo, a questo punto l’avrà capito chiunque. Sei…
“L’abbiamo persa…”
Morta. Quella era l’ultima eco. Ora non hai più legami.”
La donna si alzò di scatto. L’apatia parve scomparire, sostituita dalla consapevolezza di ciò che era accaduto.
“No! Robert, l’auto…mio dio! Ci ha visti! Io…”
“Sì, ti ha vista. Dovevi trattenerti a lavoro sino a tardi, così era uscito da solo per comprare un regalo a Kevin. Ma si sentiva in colpa. Aveva rinunciato alla carriera per te, per seguire il piccolo mentre tu coronavi il tuo sogno. Ma lui riusciva a vedere solo quante gioie della vita di Kevin ti stessi perdendo per mantenere lui e vostro figlio, e questo lo tormentava. Fotografava ogni cosa per mostrartela, convinto che tu soffrissi di quella lontananza. Tutto ciò ha portato alla vetrina, a quel vestito, e all’auto. Ricordi?”
La donna annuì. Stava lentamente prendendo coscienza di ciò che era avvenuto, mentre tentava di non venirne sopraffatta.
“Tu chi sei? Perché sei qui?”
Il ragazzo la fissò con lieve e divertito stupore, anche se alla donna parve di nuovo di scorgere quel lampo di sconforto.
“Non vuoi parlare di quel momento? Ok, ci torneremo dopo, ma dovremo farlo, sappilo. E ricorda che non abbiamo molto tempo.”
Fece un attimo di pausa, fissando un punto imprecisato lontano da loro, nel candido vuoto che li circondava, poi tornò a guardarla negli occhi.
“Ricordi ciò che hai pensato poco fa, quando mi hai guardato e hai soppesato il mio aspetto fisico? Non sei andata così lontana dal vero. La verità è che non me ne sono andato di casa. Sono stato cacciato da mio padre.”
Ancora un pausa, come se stesse cercando di elaborare un ricordo visibilmente doloroso. Karen attendeva il continuo della narrazione. La voce di quel ragazzo sembrava possedere il potere di catturare la completa attenzione dell’ascoltatore. Il suono era affascinante e suadente, e i suoi stessi occhi sembravano raccontare la storia, in perfetta sintonia con le parole. La donna bramava perdersi di nuovo in quella voce, che l’aveva, seppur per poco, distratta dal proprio ricordo.
“Non è facile essere un figlio, quando sai che non potrai mai eguagliare il successo, le qualità di tuo padre. Come ogni figlio non vorresti mai deluderlo, brami la sua approvazione, lo stupore nei suoi occhi nel momento in cui si accorge che hai compiuto qualcosa di straordinario. Non mi bastava l’amore di mio padre. Volevo la sua ammirazione. Così compii un’impresa che stupì i miei fratelli, portai a compimento quello che ritenevo essere l’unico fallimento di mio padre. Avevo talento, ero il primogenito, e volevo lasciare la mia impronta su questo mondo. Pagai a caro prezzo la mia presunzione. Mi dispiace…”
Pronunciò le ultime due parole rivolgendosi chiaramente a Karen. La donna, ancora ammaliata dal racconto, venne come scossa dal brusco cambiamento di tono di quell’ultima frase, triste e tremendamente personale.
“Cosa vuoi dire?”
Poi un’idea balenò nella sua mente, maturata dal fatto che aveva ormai preso piena coscienza dei suoi ultimi istanti.
“Oh mio dio…non mi dirai che dentro quell’auto…”
Il ragazzo colse al volo il riferimento, a subito ne approfittò per tornare sulla morte di Karen.
“Vedo che ti è tornata la voglia di discutere di te. Ma non eravamo ancora giunti all’auto, se non sbaglio. Torniamo al vestito. Perché l’hai voluto qui con te? Ora lo ricordi, non è vero?”
La donna abbassò lo sguardo, fissando il costoso abito che le fasciava il corpo dal seno sino alle gambe.
“È il regalo di Robert.”
“Sono felice di sapere che l’hai capito, anche se, dentro di te, l’avevi intuito sin dall’inizio, come dimostra il fatto che tu sia giunta qui indossandolo.”
“No, pietà, pietà! Ti scongiuro, non ce la faccio più!”