Non tutti si rendono conto della puzza
<<Ma che lingua parla questo?>>
Te ne saresti reso conto solo molto dopo, amico mio.
Ricordo che vidi trascinare via per i capelli una mia compagna di classe. Vidi i suoi bei capelli ricci e lunghi stendersi per offrire resistenza alle nodose mani del sequestratore. Questa si disperava, urlava, tirando fuori una voce che non immaginavo possedesse. La tirò fuori dalla porta, dove il muro celò un poderoso schiaffo che le raggiunse la guancia destra. Probabilmente svenne, non la sentii più. Il mio professore,istintivamente si alzò, sentendosi minacciato da vicino. La sua figura panciuta e rotonda fece uno schianto tremendo per terra, colpita da un colpo di fucile. No, non un proiettile, era il manico ad essere impattato contro la sua fronte. Si mise a carponi, e fu a quel punto che quella bestia, sotto lo sguardo attonito ed impotente di tutti noi ragazzi, prese a calci le parti basse dello sfortunato insegnante, al punto che pensai “ma che vuole, fargliele uscire dalla bocca?”. Lo fece alzare, forte dell’appoggio di un compagno che dalla porta minacciava tutti con un mitragliatore nero come la loro identità. E lo sbatté fuori come la ragazza di prima. Sbraitò qualcosa in quella lingua sconosciuta, e nessuno di noi capì cosa volesse da noi. Eravamo tutti terrorizzati a morte, nessuno capiva cosa stesse succedendo. Io ero appena appena un po’ più lucido degli altri, e riuscì a sentire la traduzione fornita dall’altro pazzo vicino all’ingresso. Non esitati a ripetere ad alta voce quello che l’interprete aveva detto. Che strano accento, pensai. Non mi risulta nuovo. Sicuramente non era italiano.
Avevo la sfrenata voglia di ribellarmi. Anche se sapevo che questo forse avrebbe causato la mia morte. Ma non potevo sopportare d’essere trattato come uno schiavo o un animale. Poi, però, osservai gli sguardi dei miei compagni di classe, uno più terrorizzato dell’altro. Capii che non potevo rischiare che venissero uccisi tutti. Certo, li odiavo, ma non al punto di desiderare la loro morte. E Filippo, dov’era? Lui mi serviva, mi serviva la sua presunta belligeranza, la sua passione per le armi e per il combattimento. Ma nel suo sguardo non ritrovai che il vuoto. Forse anche lui stava pensando. E Roberto? Roberto, il suo amico, così bravo a combattere. Su di lui non avevo dubbi: stava tremando come non so cosa. Bene così. Tra l’altro, devo confessarlo, una certa paura investiva anche me. Così, dato che quello continuava ad urlare, trascinai in piedi con me il mio compagno di banco, e mi misi a capofila. Per fortuna, tutti gli altri mi imitarono, e quello che aveva picchiato il professore si calmò un attimo. Prese a usare il fucile come un indicatore direzionale, intimandomi di uscire dall’aula scolastica. Lo feci, e mi ritrovai nel corridoio. Quello che prima aveva fatto l’interprete, puntando il fucile alla tempia e stringendomi il braccio, mi condusse all’imbocco delle scale che portavano in palestra. Mi spinse, facendomi rotolare per la prima (per fortuna corta) rampa di scale.
A quel punto realizzai che uno dei due da quella esperienza non ne sarebbe uscito vivo. Ma al momento, non potei che continuare a fare le scale, e ritrovarmi nella piccola palestra del Liceo Labriola. Quella che delle due era la più piccola, con qui e lì colonne. Tutti fummo costretti a piazzarci con la schiena al muro, in piedi, a guardare le colonne e l’ingresso alla palestra. Oltre noi, erano già presenti ad occhi e croce altre due classi. Quando l’estensione del muro non era più sufficiente, i ragazzi che dopo arrivarono furono misi a sedere proprio ai nostri piedi. Incollati alle gambe, e guai a scostarsi. Si finiva con il manico del fucile che rendeva livida la fronte. Tre di loro (tre che non avevo ancora visto. Ma per occupare una scuola di cinquecento elementi come minimo presenti sicuramente oltre ai cinque fino ad ora elencati, sicuramente ce n’erano altri. Forse anche la palestra adiacente era stata già riempita.) rimasero di guardia. Così disciplinati da rimanere con il fucile puntato contro di noi come delle statue. Solo che non ne avevo mai viste di così terrorizzanti. Con tutta la cattiveria che questo mondo potesse immaginare, i ragazzini di prima (tredici, quattordici anni al massimo senza contare quelli che avevano frequentato la primina, quindi di dodici anni) furono messi in prima fila, ad osservare proprio la bocca di quelle armi. Sentivo i loro timidi lamenti di paura. Soprattutto le ragazzine. Ed una puzza che aleggiava nell’oramai angusto spazio rivelava che la paura s’era manifestata nella più fetida delle maniere. Ma nemmeno quello smuoveva le statue di granito, che non si mossero che per colpire sulla fronte un ragazzino che stava piangendo, nel suo maglione nero e camicia bianca. La puzza era insopportabile, altre allo sfogo di qualche piccoletto la davanti si aggiungeva il sudore, anche il mio ovviamente. Non avevo idea di come agire.
<<Scusatemi, volevo … >>
Le mie parole tremolanti non ebbero risposta alcuna. Anzi una sì; le tre tremende bocche di fuoco vennero puntate contro di me. E da quella distanza (nemmeno cinque metri) nessuno avrebbe potuto sbagliare il bersaglio. Loro lo fecero apposta a sparare una raffica poco sopra la mia testa. Tutti si misero le mani sulla testa, io non ebbi nemmeno la forza di muovermi. Quando la polvere mi ricoprii il capo, e sentii il suo peso sulle narici, mi ripetei mille volte “sei un fottuto stronzo”. Lo facevo per darmi forza di reagire, e per non cedere al pianto o alla paura. Certo, le gambe richiedevano a gran voce una corsa disperata, ma dove? La palestra adiacente era sicuramente occupata, e comunque il suo ingresso era lontano da me, impedito tra l’altro dalla marmaglia umana lì sparsa. Lì dove ero entrato, i tre “nemici” presidiavano ogni sospiro. Scappare, non era possibile.
Data la loro risposta alle mie parole, riuscì a capire ben poche cose; fra di loro probabilmente l’unico traduttore era quello che aveva prelevato la mia classe. Non avevano intenzione di comunicare con noi. Quindi, eravamo ostaggi. Però ci tenevano a non farci fuori. Almeno, non ancora. Lo capii quando una ragazzina, nel pieno delirio della paura, provò la disperata corsa verso l’uscita, con le mani sul viso, i capelli che svolazzavano nell’aria viziata. Nonostante le sue grida, quello che le era più vicino non si scompose. Con le mani ricoperte dai guanti, colpì probabilmente un nervo, che fece svenire la ragazzina spaventata. Inoltre, il suo corpo privo di sensi fu trattato con cura, e risposto fra le braccia di altre ragazzine, che on fecero niente per risvegliarla. “Fate bene, fate bene. Fatela dormire, non c’è bisogno che veda tutto questo”.
Quindi, a noi ci tenevano. Avrebbero potuto trucidare quella disgraziata. Invece quasi non le tolsero un capello. Così, tentai di ragionare a mente fredda, cosa che era alquanto impossibile per me.
<<L’ho sempre detto che sei un cacasotto, eh?>>
Era Filippo. Alla mia destra, il suo sussurro giunse al mio timpano come una campana. Una speranza. C’era lui con me, avrei potuto contare su di lui. Tentando di non farci sentire dai tre sequestratori, continuammo a comunicare con il tono di voce più basso che potevamo. Filippo era un po’ più basso di me, così potei notare il sudore che gli colava dalla testa rasata. Proprio come un militare, come il suo fisico largo, quasi da Rugbista.
<<Ora voglio vedere quanto sei veramente un soldato.>>
Sorrise amaramente. Se non altro, non avremmo passato quel che ci restava da vivere con la paura sovrana. Ci lasciavano parlare. Bene, non ci sentivano. O Forse, erano troppo preoccupati a tenere sotto controllo cento o più potenziali nemici per cercare di capirci.
<<Tu hai capito da dove vengono?>>
Mi guardò come se fossi impazzito. Come avevo fatto a non capirlo prima? Un turbante dai colori scuri che lasciava liberi gli occhi. Una sorta di tuta militare, come quelle che si vedono nei campi di addestramento di Al-Qāida. La paura mi aveva ottenebrato il cervello. Allora, la questione era ancora peggio di quanto pensassi io.
<<Credo che ce l’abbiano con la nato.>>
La sede della Nato di Bagnoli. E’ proprio vicina al mio Liceo tutt’oggi. Forse quei quattro pazzi volevano la liberazione di qualche loro compagno imprigionato. O forse, non era che l’azione terroristica classica. Con terrore, rividi nella mia mente, come in un lungo ma rapido Flash-Back le immagini di due torri che si sgretolano nel nulla.

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