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  1. #1
    Ho le Palle Piene L'avatar di VirusImpazzito
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    Predefinito Dragon Ball - The Sixth (fanfiction NON MIA)

    Salve a tutti.
    Gironzolando per il web, mi sono imbattuto nella fanfiction che qui vi propongo... si tratta di un'opera quindi non mia, ma della quale ho una grande stima. Tralasciando la prosa che è molto buona, trovo che la storia sia coerente e ben organizzata. Ho anche chiesto e ottenuto dall'autore il permesso di pubblicarla.

    Inizio con una premessa scritta dall'autore in persona, che risponde al nick di Ray.

    "La storia si svolge otto anni dopo la fine di Dragon Ball Z e può essere considerata come una versione alternativa di Dragon Ball GT; potete quindi immaginarvi i personaggi così come compaiono nell’ultima serie animata (Goku è adulto e Vegeta non ha i baffi). Le età dei protagonisti sono basate su calcoli miei, che, essendo esatti, non coincidono necessariamente con la cronologia ufficiale. Quindi, facendo un breve riepilogo…
    Goku e Chichi: 53 anni
    Bulma e Vegeta: 58 anni (Bulma dovrebbe essere più giovane di un anno di Vegeta, ma, come notavo sopra, la cronologia ufficiale è errata in più punti)
    Gohan e Videl: 34 anni
    Trunks: 26 anni
    Goten: 25 anni
    Crilin: 54 anni
    Pan: 12 anni
    Questo per quanto riguarda le età note. Ho arbitrariamente deciso che Marron abbia 23 anni (non ho trovato informazioni in merito, ma mi sembra plausibile) e che Bra ne abbia 15. So benissimo che, secondo la cronologia ufficiale, la figlia di Vegeta avrebbe un anno meno di Pan, ma mi sembra un controsenso rispetto a quanto si vede nei cartoni animati; in questo caso, ho preferito affidarmi al buon senso, piuttosto che a Toriyama. In fin dei conti, l’idea che abbia 7 anni alla fine di Dragon Ball Z mi pare credibile."

    Spero di aver sollevato la vostra curiosità... fatemi sapere che ne pensate, e presto pubblicherò il primo capitolo.
    NB.: nell'opera ci potranno essere cose che non vi tornano... per favore, per le perplessità aspettate il finale perchè c'è pure una pagina di spiegazioni dell'autore. I commenti limitateli alla storia, a ciò che vi piace e che non vi piace, per il momento.

  2. #2
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    Se ti piace immagino che si tratti di un'opera valida.
    Sono davvero curioso di leggerla!

  3. #3
    Ho le Palle Piene L'avatar di VirusImpazzito
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    Aspettavo giusto una manifestazione di interesse da parte di qualcuno...
    Lo divido in parti, per prolungare l'interesse (è una fanfic già conclusa e non troppo lunga) e per maggiore comodità di chi legge.

    The Sixth
    Part 01 – Awakening (parte prima)


    Il professore guardò pensosamente il ragazzo seduto davanti a lui e sospirò. Si pulì gli occhiali con calma, mentre la luce del sole, che entrava dalle ampie vetrate della sala dell’università della Città dell’Ovest si rifletteva sul suo capo glabro. Alzò lo sguardo dalle lenti e puntò nuovamente gli occhi sul giovane. Era convinto che quel ragazzo sapesse benissimo come stavano le cose. E allora perché sorrideva? Il docente decise di mettere subito in chiaro la situazione: “Mi dispiace, signor Son Goten” disse mentre i suoi incisivi sporgenti sembravano voler schizzare fuori dalle labbra “Credo che dovremo vederci tra un paio di mesi”. “Ancora?” domandò Goten mentre un’espressione di disappunto gli si dipingeva in viso. “Capisco che la cosa possa seccarla,” replicò il professore sistemando le bacchette degli occhiali sulle sue orecchie vagamente a punta “ma lei deve essere consapevole che non posso farle passare questo esame con la sua preparazione attuale. Studi di più e si ripresenti qui al prossimo appello”. Sospirando, Goten si alzò dalla sedia e fece per dirigersi verso l’uscita della sala. Poi, si arrestò all’improvviso e si girò verso il professore. “Sì?” chiese l’uomo “C’è qualcosa che vuole dirmi?”. “Una cosa ci sarebbe” rispose Goten assumendo un’espressione pensosa “Lei ha mai fatto del cinema?”
    “Io?” domandò il professore sorpreso per una domanda simile “No, perché?”
    “Niente…. È che mi sembrava di averla vista in un film”
    “Davvero?” il docente sapeva di non essere un bell’uomo e voleva crogiolarsi almeno un po’ nell’idea di venire paragonato a un attore “E quale?”
    “Nosferatu”
    Il professore balzò in piedi e batté le mani sulla scrivania: “Fuori di qui!” gridò con gli occhi che sembravano schizzargli fuori dalle orbite “E si auguri di trovarmi di buon umore al suo prossimo appello!”.
    Sogghignando, Goten riprese a trotterellare verso l’uscita.
    Sorridendo a propria volta per la battuta, Goku si alzò dal banco sul quale si era accomodato e seguì il figlio: “Allora?” gli chiese “Andiamo in quella gelateria che abbiamo visto venendo qui?” “Certo!” replicò Goten; un attimo dopo, un fastidioso suono intermittente interruppe i due. “Pronto?” disse Goten rispondendo al cellulare “Oh, sei tu, Palace… Sì, sono in città. L’esame? Ehm… Lasciamo perdere. Senti, io sto andando in gelateria con mio padre, raggiungici lì, così…”. Il giovane non riuscì a terminare la frase: sentì una specie di pinza afferrarlo per l’orecchio destro e tirarlo verso il basso. Spostando lo sguardo verso la fonte del dolore, incontrò il volto irato di sua madre. Non gli ci volle molto per vedere che anche Goku aveva subito lo stesso trattamento. Tenendo i due uomini per le orecchie, Chichi ringhiava minacciosamente. “Goku,” chiese spostando lo sguardo sul suo intimorito consorte “hai idea di quanto tempo sia che tuo figlio è fuori corso? E poi, quando gli va male l’ennesimo esame, non ha altro di meglio da fare che prendere in giro il professore!”. “Non mi sembra un grosso problema…” balbettò Goku cercando di calmare sua moglie “Tanto può rifare l’esame tra due mesi, no?” “Questa storia, va avanti da troppo tempo!” sbottò la donna, quasi sull’orlo di una crisi isterica; poi, rivolgendosi a suo figlio: “Se non hai voglia di studiare, trovati un lavoro! Non sai quanto possa essere appagante lavorare duramente tutto il giorno!”

    Trunks starnutì violentemente. Tirando su con il naso, si sistemò gli occhiali. Non gli era sembrato di essere raffreddato…. Ma il problema principale, adesso, era che aveva starnutito sulle pratiche che stava esaminando sulla sua scrivania. Già, le pratiche. Lavorare tutto il giorno non era per niente divertente, tanto più quando si era il presidente della Capsule Corporation, una multinazionale che richiedeva attenzione costante. Meno male che era venerdì: ancora un paio d’ore di ufficio, e poi via per il week end: aveva un bel programmino in mente. Sorridendo e chiudendo gli occhi, appoggiò il mento sulle mani puntellando i gomiti sulla scrivania… Sognare a occhi aperti, certe volte, era l’unico modo per sfuggire alla routine quotidiana di un lavoro noioso. Quasi non si accorse che la sua segretaria era appena entrata nell’ufficio. “Signor presidente…” disse abbassando il capo fino all’altezza di quello di lui “Si svegli, signor presidente… Si svegli… Si svegli!”

    Stava dormendo da tanto tempo. Troppo. Aprì lentamente gli occhi e quello che vide fu un sudario di oscurità che lo avvolgeva. Non ricordava quanto tempo fosse passato da quando si era addormentato. Secoli, forse millenni; sapeva solo che era ormai il momento di svegliarsi e non solo per lui. Sapeva di avere un lavoro da fare, ma non sapeva perché. Sapeva di dover adempiere il proprio compito prima di dire che la sua vita fosse completa. Fece per alzare un braccio, ma non riuscì a stenderlo completamente: il sepolcro nel quale era rinchiuso glielo impediva. Ma non era una barriera che potesse durare. Spinse di lato il pesante coperchio di pietra del sarcofago e si mise a sedere. Buio. Ne aveva avuto il sentore già prima di svegliarsi, ma ora era una certezza: era successo qualcosa in quel posto. Non era come se lo ricordava. Nonostante i suoi occhi potessero vedere anche nell’oscurità, il fatto che quel luogo, normalmente illuminato a giorno, fosse avvolto nelle tenebre era strano. Ma tutto questo non aveva molta importanza: la missione andava compiuta comunque.

    ‘Quando l’Agnello sciolse il primo dei Sette Sigilli, vidi e udii il primo dei quattro esseri che gridava con voce tonante: “Vieni!”, ed ecco mi apparve un cavallo bianco e colui che lo cavalcava aveva un arco, gli fu data una corona e poi egli uscì vittorioso per vincere ancora’

    Dende alzò il capo istintivamente. Aveva percepito qualcosa di strano. Sapeva benissimo che guardarsi intorno sarebbe stato inutile, anche se provò il desiderio irrazionale di farlo: non c’era niente da vedere nella buia stanza del santuario di Dio nella quale sedeva in meditazione. E poi, quella strana sensazione veniva da fuori. “Mr. Popo?” chiamò il namekiano sapendo che non avrebbe dovuto aspettare molto. Silenzioso in maniera inquietante, come era suo solito, l’attendente di Dio fu pronto ad accorrere al fianco del suo diretto superiore: “Sì, signor Dende?”. “Dov’è Piccolo?”
    “È andato ad allenarsi qui vicino. Devo chiamarlo?”
    “Sì, è proprio il caso. Anzi, forse dovremmo chiedere anche a Goku e gli altri di venire qui”
    Se il volto di Mr. Popo avesse potuto tradire una qualche emozione, probabilmente sarebbe stato sorpreso: “La situazione è così grave?”
    “Non lo so ancora” sospirò Dende “Ma preferirei non correre rischi. Avrai avvertito anche tu l’aura che è appena comparsa, no? Il problema è che non riesco a capire a chi appartenga”
    “Non si preoccupi: anche Piccolo se ne sarà accorto.”

  4. #4
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    Il rombo delle acque della cascata, che si infrangevano nel lago sottostante dopo un salto nel vuoto di più di trenta metri, non impedì a Piccolo di accorgersi che non era solo. Anche se non avesse avuto la capacità di percepire le aure altrui, ci sarebbe arrivato comunque: veniva a meditare davanti a quella cascata da più di tempo di quanto gli importasse di ricordare e ormai aveva una simbiosi quasi completa con l’ambiente circostante. Conosceva lo stato di salute delle popolazioni di pesci che vivevano nel lago; sapeva quanto impiegava una goccia d’acqua che cadeva dalla cascata a toccare le acque sottostanti; sapeva esattamente dove i grandi dinosauri dal becco d’anatra andavano a deporre le uova e sapeva quanti giovani nascevano ogni anno; sapeva quanti di quei giovani non sarebbero arrivati all’età adulta, stroncati dalle malattie, da un incidente o dalle fauci di un tirannosauride. E sapeva che adesso c’era qualcosa di strano dietro la cascata. Senza abbandonare la sua abituale posizione di meditazione, estese la propria aura dietro di sé, come a scandagliare le acque che scendevano dietro la sua schiena. La risposta non si fece aspettare. Un paio di mani si protese dalla cascata, passando attraverso l’acqua quasi fosse stata inesistente. Piccolo sapeva esattamente che quelle mani erano ormai a pochi centimetri dal suo volto, ma rimase immobile: aveva la netta sensazione che, se davvero il proprietario delle mani avesse voluto ucciderlo, lui non avrebbe potuto farci niente. Una goccia di sudore gli scivolò lungo la fronte Quasi furtivamente, senza girare la testa, spostò lo sguardo quanto più indietro poté, sopra la sua spalla sinistra. Ora vedeva una delle mani: calzava un guanto metallico bianco; le dita, sproporzionatamente lunghe, erano dotate di minacciosi artigli. Piccolo sentì il proprio battito cardiaco aumentare all’impazzata. Odiava l’idea di perdere il controllo: gli dava l’impressione di essere un incapace. Si costrinse a restare immobile mentre le dita gli premevano contro la pelle del viso, passandoci sopra senza ferirla, nonostante fossero affilate come rasoi. Poi accadde. La mani si ritrassero improvvisamente e il corso d’acqua della cascata sembrò interrompersi quando una figura umana infranse la barriera liquida e uscì finalmente all’aperto. Quando il nuovo arrivato fu uscito dalla cascata, Piccolo era già balzato diversi metri più avanti, giratosi verso il suo misterioso assalitore. Il namekiano squadrò l’uomo con un misto di curiosità e stupore. Perché quello che lo aveva minacciato così apertamente era senz’altro un uomo. Un uomo la cui armatura bianca proteggeva il torace, le spalle, gli avambracci e le gambe dalle ginocchia in giù. La corazza sul petto sembrava essere composta di tre strati, i più profondi dei quali sporgevano man mano che l’armatura andava verso il centro del petto; le protezioni sulle spalle erano costituite ciascuna da una piccola placca metallica, da sotto la quale ne spuntava una più lunga. Un corto mantello bianco, dal bordo frastagliato e nero, pendeva da quelle protezioni. Un panno anch’esso bianco, anch’esso dal bordo nero, scendeva invece dalla cintura metallica, coprendo dei pantaloni anch’essi immacolati. Il viso dell’uomo, la cui età non si sarebbe potuta dire, era coperto, nella parte sinistra, da una placca metallica che sembrava mimare le fattezze del proprietario e che pareva quasi essere inchiodata alla faccia. Una chioma di arruffati capelli neri, interrotti nel centro da una striscia inspiegabilmente bianca, scendeva fino alla nuca; due lunghi ciuffi immacolati si protendevano sopra la faccia, fin quasi a toccare il mento. E poi c’erano i guanti. Quei guanti metallici dagli artigli lunghissimi, che mimavano le dita umane in un’assurda e grottesca parodia.
    Piccolo si sentì fastidiosamente disorientato a quella vista. Non sapeva perché, ma gli sembrava che quell’uomo, che ora levitava davanti alla cascata, solo pochi metri di fronte a lui, avesse un’aria completamente aliena. Eppure, a parte quegli strani capelli bianchi, non c’era niente di strano in lui. “Chi sei?” chiese il namekiano accigliandosi anche più del solito. Il nuovo arrivato alzò il capo verso il suo interlocutore: “Dovrei essere io a chiederlo” rispose con un sogghigno “L’ultima volta che sono stato qui, non c’era gente con la pelle verde, quattro dita per mano e le orecchie a punta”. Era già stato lì? Ma quando? Quello era il posto i cui Piccolo si allenava da più di trent’anni, come era possibile che qualcuno fosse stato lì senza che lui se ne fosse accorto? Il namekiano finse di non essere sorpreso per la domanda: “Forse dovresti chiedermelo tu,” ammise “però te l’ho chiesto prima io. Allora, chi sei?”. “Mi chiamo Mesembria” fu la risposta, mentre i suoi occhi neri e inquietanti si posavano sul guerriero dalla pelle verde “E tu?”. “Piccolo” rispose questi senza scomporsi. L’uomo che aveva detto di chiamarsi Mesembria si guardò intorno. “Già,” considerò riportando lo sguardo sul suo interlocutore “questo posto è davvero cambiato. Tu cosa sei esattamente?”
    “Continui a farmi domande che dovrei porti io…”
    “E tu continui a darmi risposte che non mi soddisfano. Ma non sono qui per soddisfare la mia curiosità, in fin dei conti. Allora, combattiamo?”
    Piccolo restò un po’ spiazzato per quella proposta tanto esplicita. Certo, si era aspettato che quel tale lo avrebbe attaccato, ma non che gli avrebbe chiesto di combattere senza apparente motivo. Eppure, benché la sua sensazione di impotenza non fosse diminuita, decise che sarebbe stato un buon modo per valutare le capacità di quell’individuo: “D’accordo, sono pronto”. Senza aspettare una sola frazione di secondo, Mesembria volò verso il nemico con una velocità straordinaria; in un attimo, Piccolo si trovò sommerso in una scintillante tempesta di artigli che gli turbinavano intorno apparentemente a caso. Eppure, sottovalutare uno solo di quei colpi si sarebbe potuto rivelare fatale. Finché, l’ennesimo colpo di Mesembria colpì il vuoto. Davanti a lui non c’era più nessuno. Ma non era una sorpresa: con una rapida rotazione, il guerriero si voltò, appena in tempo per ribattere un Makanko Sappo che altrimenti gli avrebbe trapassato il corpo. Mentre il colpo di Piccolo andava a infrangersi contro una montagna, tagliandola letteralmente in due, Mesembria alzò lo sguardo verso il suo avversario. Si era spostato con una rapidità incredibile, quasi in un movimento istantaneo. Mesembria sorrise. Poi diede le spalle a Piccolo e cominciò a volare verso oriente, apparentemente intenzionato a lasciare il luogo dello scontro. “Aspetta!” esclamò il namekiano “Il nostro combattimento non è ancora finito!”. “Invece sì” replicò Mesembria senza voltarsi “Durante il nostro scontro io ho lanciato contro di te ottantasette colpi d’artiglio, ma tu ne hai visti solo ottantacinque. Gli altri due ti hanno preso”. “È vero ammise piccolo mentre il taglio sul suo bicipite destro e quello sulla sua coscia destra cominciavano a bruciare “ma non ti illudere che basti questo per uccidermi”. L’uomo uscito dalla cascata sogghignò: “Ma io non ho mai detto di volerti uccidere. Anzi, uccidere è contrario ai miei principi. Va bene così, non ti preoccupare.”

    (continua...)

  5. #5
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    Penso di avere letto questa fanfiction molti anni fa... però non l'avevo finita (probabilmente all'epoca era ancora in corso). La rileggo volentieri visto che è passato tanto tempo (e quindi non sono nemmeno sicuro che sia quella stessa fanfiction, potrò esserne certo solo leggendo i prossimi capitoli) e inoltre potrò vedere come finisce.

  6. #6
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    Un ottimo inizio!

  7. #7
    Ho le Palle Piene L'avatar di VirusImpazzito
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    Continuiamo...

    The Sixth
    Part 01 – Awakening (parte seconda)

    Un’esplosione assordante di energia dorata squarciò l’oscurità della notte; le distese rocciose furono polverizzate quasi all’istante dalla deflagrazione scintillante. Mentre un gruppo di uomini e donne dai capelli neri scrutava con apprensione i filamenti quasi solidi di energia spirituale e le scariche elettriche che saturavano l’aria, nell’ormai morente esplosione dorata si stagliò la figura di un individuo dai capelli brillanti. Il viso del Super Saiyan, che avanzava lento e inesorabile verso i suoi simili più deboli, era a malapena visibile, ma un particolare di quel volto era chiaro a tutti gli astanti: il sadico ghigno di trionfo che contorceva quelle labbra parlava della soddisfazione di chi aveva appena massacrato centinaia, forse migliaia di suoi simili, ebbro per la forza mostruosa che l’improvvisa trasformazione gli aveva donato. Alzando il capo, il Super Saiyan guardò minaccioso le persone che stavano ormai aspettando solo la propria fine, consapevoli di essere ormai a un passo dall’abisso. Quando il superguerriero lanciò il suo urlo di battaglia, un’altra esplosione dorata devastò la superficie del pianeta.
    “Ma è davvero andata così?” chiese Bra sporgendosi verso il sedile sinistro della macchina, dove suo padre stava guidando verso casa. “Questo è quello che mi ha raccontato mio padre” rispose Vegeta “Ma nemmeno lui era ancora nato quando comparve il primo Super Saiyan”. Bra non sembrava completamente soddisfatta dalla spiegazione: “E dopo cosa accadde?”. “La civiltà Saiyan su quel pianeta fu completamente distrutta dal Super Saiyan. Fu allora che i nostri antenati migrarono nello spazio alla ricerca di una nuova casa. Arrivarono su di un mondo chiamato Plant, sterminarono la popolazione locale e diedero a quel pianeta il nome di Vegeta, in onore di mio padre, che aveva guidato gli attacchi contro gli autoctoni”
    “Ma dove si trovava il pianeta originariamente abitato dai Saiyan? Esiste ancora?”
    “Non lo so. Quel mondo era diventato inabitabile a causa del Super Saiyan e probabilmente fu completamente distrutto”
    Questo era uno dei rari momenti in cui Vegeta parlava senza infilare un’imprecazione ogni tre parole: nonostante avesse raccontato questa storia a sua figlia già diverse volte, lei continuava a chiedergli nuovi particolari in merito. E a Vegeta piaceva sempre poter narrare qualcosa sulla sua razza; soprattutto, lo confortava l’idea che ci fosse almeno un Saiyan che avesse un qualche interesse per i propri antenati. Gli piaceva ripetere quel racconto a Bra, anche se si sarebbe fatto passare un furgone su un piede piuttosto che ammetterlo. All’idea che il pianeta dei Saiyan potesse ancora esistere, la ragazza si lasciò trascinare dall’entusiasmo: “Non credi che potremmo chiedere alla mamma di costruire un’astronave e andare a cercare questo pianeta? Potrebbero esserci dei Saiyan superstiti, no? E poi, non trovi che sarebbe divertente? E poi, io potrei saltare qualche giorno di scuola! E poi, forse ci sarebbe qualcuno che potrebbe riconoscerti come re, e di conseguenza io sarei una principessa… Non ti piace l’idea?”. Ecco, questo era qualcosa di sua figlia che Vegeta detestava: quando cominciava a parlare a vanvera, fermarla era praticamente impossibile. Quando usciva per farsi un giro in macchina, aveva sempre il timore che Bra si accomodasse su uno dei sedili e decidesse di accompagnarlo, costringendolo puntualmente a interminabili sessioni di shopping per i centri commerciali della città. Più volte Vegeta aveva cercato di convincere sua moglie a confiscare le carte di credito di Bra, armi che, in mano all’adolescente più ricca del mondo, avevano un potenziale letale. E invece, Bulma si era sempre rifiutata, sostenendo che le uscite per lo shopping erano un momento di aggregazione tra padre e figlia di cui c’era bisogno, considerato che il principe dei Saiyan passava buona parte della giornata ad allenarsi nella gravity room.
    L’auto si fermò davanti all’enorme edificio a cupola che era la Capsule Corporation; Bra fu la prima a scendere, scaricando velocemente una mezza dozzina di pacchi che quasi traboccavano dal bagagliaio. Un attimo dopo, Vegeta premette un piccolo tasto sul fianco della macchina: in un’esplosione di fumi rosati, l’auto sparì per lasciare il posto a una minuscola capsula.
    “Mamma!” esclamò Bra, le braccia ingombre di scatole assortite, facendo per spalancare la porta con un piede “Siamo a casa!”. “Era ora!” replicò Bulma aiutando la figlia ad aprire. “Ciao!” disse Goku salutando la ragazza con un cenno della mano. “Oh, sei qui anche tu, Kakaroth?” chiese Bra poggiando i pacchi sul divano, proprio vicino a dove era seduta Chichi. ‘Kakaroth’ sospirò: erano anni che cercava di convincere Bra a chiamarlo Goku, ma non c’era stato verso di farle cambiare abitudini. Da piccola aveva sentito suo padre chiamarlo Kakaroth e da allora lo aveva etichettato con quel nome. Pratica che Vegeta non aveva cercato di scoraggiare in alcun modo. Il principe dei Saiyan entrò proprio in quel momento: “Cosa ci fai qui?” domandò acido appena vide Goku, praticamente senza prestare la minima attenzione a Chichi. Prima che l’altro Saiyan potesse rispondere, Bulma si frappose fra lui e il marito: “Erano qui per assistere a un esame di Goten e sono passati a trovarci. Naturalmente, li ho invitati a restare per cena”. Vegeta sbuffò, poi spostò sua moglie di lato e si rivolse a Goku: “Se proprio hai voglia di restare qui, almeno renditi utile. Andiamo nella gravity room”. “Molto volentieri” rispose l’ospite sorridendo. Aveva rinunciato ad accompagnare Goten alla gelateria proprio nella speranza che Vegeta gli offrisse un combattimento. Senza contare che, in un inspiegabile quanto insolito impeto di tatto, aveva pensato che la sua presenza potesse essere importuna tra suo figlio e la di lui ragazza.
    Quando i due uomini arrivarono alla gravity room e iniziarono gli esercizi di riscaldamento, entrambi sapevano cosa aspettarsi. Sin da quando si erano conosciuti per la prima volta, circa trent’anni prima, Goku e Vegeta erano stati rivali. Si erano battuti in un paio di occasioni e avevano sempre cercato di superarsi a vicenda. Ciascuno di loro sapeva di poter trovare nell’altro un degno avversario. “Regolo la camera a 300 G” dichiarò Vegeta senza aspettarsi una risposta: quando combattevano lì dentro, quella era la gravità abituale. I due Saiyan si misero uno di fronte all’altro e si squadrarono in attesa dello scontro.

    ‘Quando l’Agnello aprì il Secondo Sigillo, udii il secondo essere vivente che gridava: “Vieni!”. Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. Al colui che lo cavalcava fu dato il potere di togliere la pace dalla Terra, affinché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada’

    Ordine: Ornitischia; sottordine: Ceratopsia; famiglia: Ceratopsidae; genere: Triceratops; specie: horridus. Specie comune nella parte centro meridionale del continente, mentre le due specie T. prorsus e T. ingens, più piccole e più rare, erano rispettivamente tipiche della zona più occidentale e di quella più orientale. Un maschio adulto di triceratopo poteva raggiungere i nove metri di lunghezza e avere un aspetto abbastanza temibile da mettere in fuga qualsiasi predatore. Le migrazioni stagionali coprivano uno schema fisso, che portava le mandrie di questi dinosauri cornuti a spostarsi dalle pianure centrali, solitamente occupate nei mesi caldi, alla punta meridionale, poco più a sud del luogo dove, molti anni prima, Gohan si era allenato sotto la guida di Piccolo. Un triceratopo maschio che raggiungesse l’età adulta veniva immediatamente espulso dal branco dall’esemplare dominante: si sarebbe dovuto guadagnare il proprio harem di femmine combattendo contro i propri simili con le corna affilate. Data l’aggressività naturale di questi animali, pochi esseri umani osavano passare da dove si trovavano mandrie di triceratopi; e anche quelli ne restavano bene alla larga, conoscendo l’abitudine di questi dinosauri di caricare qualsiasi cosa entrasse nel loro territorio. Grossi, ben armati e resistenti: c’erano davvero poche cose di cui i triceratopi avessero paura, anche perché, non essendo molto intelligenti, non avevano schemi comportamentali che permettessero loro di reagire diversamente dall’attaccare qualsiasi potenziale pericolo. Però, c’era qualcosa che era in grado di spaventarli: il vulcano attivo che sovrastava la vallata eruttava lapilli e lava, vomitava una maledizione rovente in grado di mettere in pericolo persino i grossi dinosauri cornuti. Quando il vulcano quasi esplose in una festa mortale di scintille scarlatte, tutti i triceratopi si diedero alla fuga. Per loro, quella era la nemesi per antonomasia. Era ciò da cui non si potevano difendere. Il vulcano era come un dio iracondo che scagliasse la sua furia casuale e terribile contro creature incolpevoli. Il cervello di un triceratopo non era in grado di comprendere un concetto complesso come un condizionale; se avesse potuto, però, avrebbe pensato che nessun essere vivente sarebbe potuto sopravvivere a un’eruzione vulcanica.

  8. #8
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    Era già noto da diverso tempo il potenziale distruttivo di un’eruzione: la sua forza poteva scagliare le pietre che il vulcano sputava nella stratosfera; una bomba nucleare non poteva eguagliare la potenza di questo fenomeno naturale. Eppure, nel bel mezzo della colonna di lava incandescente che ora si levava dal vulcano, c’era una figura umana. Sembrava levitare proprio sulla bocca del cratere, sembrava esporsi all’eruzione come se fosse stata una doccia rinfrescante. Quando la lava, esaurito il suo sfogo momentaneo, si arrese alla gravità, rivelò una figura umana sospesa in aria, impassibile e immobile. L’uomo, un gigantesco individuo dalla muscolatura quasi sproporzionata, indossava un’armatura rosso scarlatto. Su ciascuna spalla, campeggiavano due protezioni bombate che ripiegavano verso il petto, le più interne delle quali giravano appena sotto il collo taurino, andando a posarsi sulle due piastre pettorali che difendevano il torace. Gli avambracci e le mani erano protetti da un paio di guanti metallici che coprivano però solo l’ultima falange di ciascun dito; dalle ginocchia in già, i gambali rossi dalle ginocchiere rotonde non facevano che accentuare la massa muscolare delle cosce scoperte. Dalla cintura metallica pendeva un corto panno arancione dal bordo frastagliato, mentre quella che sembrava essere una pesante collana di grossi pezzi di granito sferici uniti da uno spesso cavo di ferro cingeva il collo. I capelli, arruffati e con la riga in mezzo, erano tenuti in alto da una fascia anch’essa arancione, che spiccava immediatamente sopra le sopracciglia cespugliose. Il naso piccolo e il doppio mento non facevano che aggiungere ulteriore solennità a un volto già abbastanza truce di per sé. Un volto sul quale spiccavano quegli strani capelli neri con una striscia bianca in mezzo. L’uomo che aveva sopraffatto il vulcano si guardò intorno nel tentativo di capire dove si trovasse. Il posto era nuovo. O comunque era cambiato parecchio rispetto a quando l’aveva visto l’ultima volta. Ma tutto questo era secondario: ora doveva raggiungere il luogo concordato.

    Il silenzio era calato nella palestra. Nessuno osava muoversi. Nessuno alzò un dito, nessuno osò fiatare: il Campione Mondiale di Arti Marziali, il grande Mr. Satan, era appena salito sulla pedana dei combattimenti. Per una palestra della Città dell’Ovest era un onore avere per ospite il grande Mr. Satan, che normalmente non si muoveva da Satan City. L’uomo che aveva sconfitto Cell era l’idolo delle folle. Colui che aveva salvato il mondo dal mostro che aveva minacciato di distruggerlo. C’era addirittura chi sussurrava che fosse stato lui, molti anni prima dell’arrivo di Cell, a battere il Grande Mago Piccolo. Era solo una voce non confermata, alla domande in merito alla quale, Satan aveva sempre risposto con un “no comment”; chi lo conosceva bene, però, era pronto a giurare che sapesse quale fosse la verità in proposito. In questo momento, Mr. Satan stava alzando le braccia al pubblico, gli allievi della palestra seduti tutt’intorno a lui, che lo sommergevano con la solita dose di applausi. “Grazie!” esclamò Satan sfoggiando il suo solito sorriso a trentaquattro denti, mentre il suo mantello, mosso da un ventilatore posto in posizione strategica, svolazzava alle sue spalle per creare l’effetto scenico “Vi ringrazio per il vostro affetto! Se vi allenerete con costanza, un giorno, diventerete forti quanto me! Ma non illudetevi: il campione sono io e dovrete fare parecchia fatica per…” non fece in tempo a concludere la frase: un energumeno grande e grosso, con indosso il tipico gi da arti marziali, era salito sulla pedana. Il tizio puntò contro il campione un indice accusatore: “Io non credo che tu sia così forte! Sono convinto di poterti battere, anche se tutti dicono che tu sia invincibile!”. Quasi per enfatizzare le proprie parole, l’uomo picchiò un pugno sulla pedana, sfondando diverse delle piastrelle che la ricoprivano. Mr. Satan scoppiò a ridere. Parecchi anni prima, vedendolo in una situazione simile quando si era trovato a dover combattere con il piccolo Trunks, Gohan si era chiesto se quella risata fosse semplicemente riso isterico o se dipendesse dal fatto che Satan non comprendeva quello a cui si trovava di fronte. La verità era tutt’altra. In genere, quando Mr. Satan rideva così sguaiatamente di fronte a un avversario, significava che stava pensando a come evitare il combattimento. Significava che se la stava quasi facendo addosso per la paura, che sapeva di non potercela fare. Ma che sapeva anche di essere il Campione Mondiale e non aveva la minima voglia di perdere il titolo. Stavolta fu Mr. Satan a puntare un dito verso l’uomo: “Perché mai dovrei abbassarmi a combattere contro uno come te? La tua forza è talmente inferiore alla mia, che posso anche affidare un compito simile al più debole dei miei allievi! Aspetta un attimo, eh?”. Satan frugò freneticamente tra le tasche del suo costume, fino a estrarne un telefonino cellulare. Con le dita che scivolavano sui tasti per il sudore freddo, compose velocemente un numero. All’altro capo del telefono, qualcuno rispose: “Pronto?”. “Gohan?” chiese Satan “Senti, avrei bisogno che mi facessi un favore. Potresti venire un attimo qui? Adesso ti do l’indirizzo…” “No, scusa,” lo interruppe il suo genero “in questo momento sono in riunione. È importante, davvero. Ti richiamo io appena finisco, d’accordo?”. Satan sentì il sudore scendergli lungo la fronte: “Ve bene,” disse poi “proverò a chiamare tuo padre” “Non credo sia a casa” rispose Gohan “Che io sappia, oggi mio fratello aveva un esame e i miei genitori volevano andare a vederlo. Però, a quest’ora dovrebbe avere finito: forse trovi Goten sul cellulare e mio padre potrebbe essere con lui”. Mr. Satan riattaccò. Ora cominciava a preoccuparsi veramente. Lanciò un’occhiata al suo avversario, che aveva incominciato a spazientirsi e stava piegando un paio di sbarre di ferro pieno (contemporaneamente) per passare il tempo: “Un momento solo!” disse, quasi a scusarsi. Si portò di nuovo il cellulare alle dita e compose un altro numero: “Goten?” disse appena sentì qualcuno rispondere, senza nemmeno aspettare che l’altro dicesse qualcosa. “Sei tu, Satan?” domandò il giovane, quasi spaventato per il tono trafelato del campione. “Tuo padre è con te?”
    “No, ci siamo lasciati una mezz’oretta fa, perché?”
    “Oh, non fa niente. Senti, dovresti farmi un favore”
    “No, guarda, adesso non posso proprio…”
    “Ma come sarebbe a dire? Io sono in pericolo di vita!”
    “Anch’io: se dovessi lasciarla nel bel mezzo dell’appuntamento, Palace non mi perdonerebbe mai! Ora scusa, eh?”. Goten riattaccò. La situazione si stava facendo davvero tragica. Satan stava cominciando a pensare che non sarebbe sopravvissuto per un’altra mezz’ora. Pensò a un’ultima risorsa. Non voleva comporre quel numero. Chiamare quel tizio significava sfidare la morte. Avrebbe messo la propria vita ancor più in pericolo, se si fosse rivolto a quel tale. Ma la disperazione lo spinse a premere sui tasti fatali. “Pronto?” chiese Bulma all’altro capo del telefono. “Sono Satan” disse il campione “Vegeta è in casa?”. Non riusciva a credere a quello che stava facendo: chiedere aiuto a Vegeta era come buttarsi in una fossa piena di coccodrilli da tremila metri, senza paracadute, legati e imbavagliati e con il corpo cosparso di sangue di capra.
    “Sì, ma si sta allenando. Quando si chiude nella gravity room, non vuole essere disturbato per nessun motivo”
    “Ma è un’emergenza!”
    “Lo diventerebbe davvero se Vegeta venisse interrotto durante gli allenamenti!”
    Niente da fare. Satan pensò costernato che nessuno si rendeva conto della gravità della situazione. Deglutì vistosamente, mentre il suo avversario si avvicinava a grandi passi: “Allora?” domandò l’uomo guardando il campione dall’alto in basso “Non sono ancora arrivati i tuoi allievi? Puoi anche chiamarli tutti, tanto li massacrerò dal primo all’ultimo! Però farebbero meglio a sbrigarsi, o potrebbe venirmi voglia di passare direttamente a te!”. Proprio mentre l’energumeno stava per alzare una mano minacciosa su un annichilito Satan, una voce lo interruppe improvvisamente: “Facciamola finita con questa farsa!”. Irritato per l’imprevisto, l’uomo si girò verso il punto da cui era arrivata la voce. Con le braccia conserte e uno sguardo truce puntato sui due uomini, una ragazzina stava sulla pedana, con un’impazienza che risultava evidente da come la punta del suo piede tamburellava per terra. “No, Pan!” gridò Satan “Stanne fuori! Questo tipo è pericoloso!”. L’avversario del campione squadrò Pan divertito: “Non ci posso credere! Il Campione Mondiale che si nasconde dietro una ragazzina!”. “Io non sono una bambina!” esclamò Pan. “Non vorrai che io mi batta contro di lei, vero, Satan?” chiese l’uomo ignorando la giovane “Guarda che io sono un professionista, non ho tempo da perdere con una bambina che ha voglia di giocare a fare l’esperta di arti marziali!”. Pan stava ribollendo: “Ho detto che non sono una bambina! Nonno, fatti da parte! Questo qui lo sistemo io in dieci secondi!” “Nonno?” stavolta si sentiva chiaramente che nella voce dell’energumeno c’era un’ironia nemmeno troppo celata “E quindi questa sarebbe tua nipote? Certo che questa bambina è proprio spavalda come te! Sei proprio caduto in basso se ti fai proteggere dalla tua nipotina! Andiamo, è solo una bambina!”. Era troppo. In una frazione di secondo, con un movimento che nessuno riuscì a vedere, Pan scattò in avanti; lo sfidante se la trovò sotto il naso praticamente senza accorgersene; un attimo dopo, vide tutta la palestra che gli turbinava attorno come se fosse stata una lavatrice in piena centrifuga. Un attimo dopo, tutto si fermò. Un attimo dopo, il proprietario della palestra pensò che sarebbe stato parecchio difficile estrarre quel tizio dal muro.

  9. #9
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    “Ti se fatta male, Pan?” chiese Mr. Satan mentre si avvicinava a sua nipote, che, più che ferita, sembrava seccata e annoiata a morte. “Come potevo farmi male?” sbottò la ragazza visibilmente irritata per quella domanda “Comunque, io non ho intenzione di restare qui un minuto di più. Questo posto è troppo noioso e io ho altro da fare!”. Tra lo stupore generale degli astanti, Pan si alzò in volo e fluttuò fuori dalla finestra. Mr. Satan seguì con lo sguardo sua nipote mentre se ne andava come se niente fosse. Poi, si girò verso gli allievi della palestra: “Avete visto?” disse “Sono stato io ad allenare mia nipote! Se quel tizio non è riuscito nemmeno a battere lei, cosa avrebbe potuto fare contro di me?”. Prorompendo in una risata sguaiata, pensò che, una volta tornato a casa, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata dare a Mr. Bu un cellulare personale.
    Atterrando sul marciapiede, Pan pensò che seguire suo nonno in quella visita alla palestra fosse stato un errore. I tizi che la frequentavano non erano certo molto forti, ma non era solo questo il punto… Il fatto era che, da qualche tempo, Pan stava cominciando a perdere interesse per le arti marziali. Sentiva le sue compagne di classe che parlavano solo di ragazzi e lei aveva l’impressione di essersi persa qualcosa avendo passato tutta la propria vita con la famiglia, ad allenarsi con suo nonno Goku. Aveva deciso che si sarebbe trovata un ragazzo prima delle sue amiche, ma come fare? Dopo aver ponderato a lungo, era giunta a una conclusione: avrebbe dovuto chiedere consiglio a qualcuno che avesse più esperienza di lei. Ma chi? Non certo sua madre: anche se le era molto affezionata, sapeva che chiederle come muoversi in una situazione del genere avrebbe messo in imbarazzo entrambe. E non poteva chiedere nemmeno a sua nonna, che, essendo mostruosamente tradizionalista, non la avrebbe mai capita. Poi, durante una visita alla Kame House insieme a suo nonno, aveva incontrato la persona che aveva deciso di prendere come modello: Marron. Già, chi meglio di lei? La figlia di Crilin sembrava proprio una persona dotata dell’esperienza di cui Pan aveva bisogno.

    (fine seconda parte - continua...)

    PS: I capitoli sono tutti abbastanza lunghi, e la pubblicazione in più parti è opera mia... dite che la lunghezza delle varie parti è eccessiva, o troppo breve? Fatemi sapere, così mi adeguo.

  10. #10
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    La scena di Satan assomiglia moltissimo a quella della mia fanfiction (anche se è fatta meglio ).
    Comunque sono sempre più convinto di aver già letto questa storia!

    Per me questo ritmo va benone.

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