Lo odiava.
Dalla prima volta in cui lei gli aveva posato i suoi dolci occhi azzurri addosso, non aveva fatto altro che odiarlo.
Era arrivato in classe con quell’aria da cretino, i capelli scompigliati, l’emblema del nerd inutile, eppure lei l’aveva subito invitato a sedersi al suo fianco.
Come se lui non esistesse.
Da quanto tempo la conosceva? Da quanto cercava un qualunque pretesto per stare con lei, per dimostrarle di essere l’uomo giusto? Non si era forse allenato fino allo sfinimento, pur di essere perfetto per lei? A cosa serviva quel suo corpo così allenato, se non per convincerla che nessuno sulla terra era degno della sua incredibile bellezza?
Eppure lei, in quegli anni, sembrava non averlo mai notato.
Poi era arrivato lui. Un singolo giorno di scuola, e già lei gli si era appiccicata, al punto di chiedergli di portarla a casa. Quante volte lui le aveva offerto un passaggio, solo per sentirsi dire che non doveva disturbarsi per lei? Quello aveva rifiutato, meraviglioso imbecille, ma era stato solo l’inizio. Appena qualche settimana di calma, ed eccoli lì a confabulare tra i banchi, lei a sorridere, lui rosso in viso. Pensavano forse che lui fosse idiota, che non li vedesse?
Iniziava a pensare che in qualche modo lei godesse nel farlo soffrire, nel vederlo morirle dietro mentre avverava il suo sogno alla persona sbagliata, all’ultimo arrivato.
<< Allora ti aspetto sotto casa mia! Non essere timido, forza, dovrai pur imparare come si tratta una ragazza! >>
Li aveva seguiti, quel pomeriggio. Lei lo trascinava per negozi, lui imbambolato come un idiota. Non aveva la minima idea di come trattarla, di come lei meritasse di essere guardata, o toccata.
Li osservò mangiare un gelato, ridere di cose che non poteva udire. Stavano forse ridendo di lui?
Alla fine la riaccompagnò a casa, lei lo baciò su di una guancia, entrò in casa, e lui se ne andò ancora rosso come un peperone.
Quanto era possibile soffrire oltre il punto cui era arrivato?
Solo immaginarla fra le sue braccia gli straziava l’anima. Con che faccia l’avrebbe salutata in classe il giorno dopo? Come avrebbe potuto sopportare di vederli passeggiare assieme per i corridoi della scuola? Era distrutto, ma ormai poteva solo tornare a casa e sperare che il domani fosse anche solo un po’ meno doloroso del presente.
Probabilmente, se c’era un dio, lo odiava. Che lei ormai si facesse beffe di lui e di ciò che provava non lo meravigliava, ma non riusciva davvero a sopportare che persino la sua migliore amica fosse coinvolta in tutto questo.
<< Allora, cosa hai intenzione di fare? >>
<< Non lo so, è da parecchio che ci penso, ma non so neppure se gli interesso davvero. >>
<< Da te questo non me lo sarei aspettato, da quando fai la scolaretta timida? >>
<< Con lui è diverso, sento che potrebbe essere la persona giusta, ma al punto in cui siamo rischierei di rovinare tutto. >>
<< Bah, secondo me … >>
Non poteva ascoltare oltre. Le aveva viste confabulare oltre l’angolo del corridoio, e si era fermato ad ascoltare, ma ne aveva abbastanza. Non solo lei era completamente andata per lui, ma quello osava persino fare il difficile. Non riusciva neppure a capire se voleva abbracciarlo o spaccargli la faccia.
<< Ah! Ciao, non sapevo fossi qui! >>
Dannato idiota. Si era perso nei propri pensieri e non l’aveva sentita arrivare. Sollevò lo sguardo, ancora carico di rabbia, e la guardò in faccia. Perché doveva essere così assurdamente bella, con il volto incorniciato da soffici capelli color oro e gli occhi simili ad un cielo estivo? Forse sarebbe stato tutto più facile, se lei non fosse stata tutto ciò che aveva sempre sognato nella vita. Vederla così non faceva altro che alimentare la sua furia.
<< Ho fretta, non ho tempo per te. >>
La superò, e si morse il labbro inferiore non appena fu alle sue spalle. Non era giusto né umano soffrire così.
Li vide confabulare e ridere ancora nei giorni seguenti. Ormai andare a scuola non era altro che una tortura. Lei non gli si staccava mai di dosso, sempre lì a parlottare, mentre l’altro assumeva sfumature dal rosso al viola.
Alla fine, una mattina si finse malato, per ricaricare un po’ le batterie. Dopo quel giorno nel corridoio, lei non gli aveva più rivolto la parola, e lui non era stato più capace di dirle nulla. Non averla accanto e saperla con lui era due fatti che, sommati insieme, aveva superato la sua soglia di sopportazione. Che si fossero messi pure a pomiciare in classe quella mattina. Lui non li avrebbe visti, e non avrebbe sofferto.
Erano circa le sei di sera quando sua madre lo cacciò a forza fuori di casa per “far uscire un po’ di aria tetra dalle mura domestiche”. Non aveva chiamato nessuno, e si era semplicemente diretto in centro senza alcuna idea in mente. Era quasi riuscito a rilassarsi, quando venne bruscamente riportato alla realtà. Poteva davvero essere così sfortunato?
Non erano a più di venti metri da lui. Lui la cingeva fra le braccia, visibilmente imbarazzato in mezzo alla gente, lei era di spalle, e aveva il volto affondato nel suo petto.
Serrò istintivamente i pugni, fino a non sentire più la punta delle dita, mentre il suo volto si tramutava in una maschera di rabbia. Voleva colpirlo, fargli del male, staccarlo da lei, qualunque cosa pur di far cessare l’orribile sensazione da cui era pervaso. Mosse un passo nella loro direzione, quando quello alzò lo sguardo e lo vide.
I loro occhi si incrociarono per un breve istante. Sembrava sorpreso di vederlo lì, ma la sua espressione mutò nel giro di un secondo, quasi avesse percepito le sue intenzioni.
Il suo sguardo divenne truce, gli occhi si assottigliarono. Abbasso per un momento lo sguardo sulla ragazza stretta al suo petto, poi tornò a fissarlo negli occhi.
Era terrorizzato.
Invece di continuare ad avanzare, iniziò senza alcun controllo a camminare all’indietro, con gli occhi fissi sull’altro, quasi si stesse allontanando da una belva feroce. Pochi passi, poi si voltò ed iniziò a correre. Non si rese neppure conto di essere arrivato alla porta di casa quando riuscì a fermarsi.
Perché? Perché aveva avuto così tanta paura di quella nullità? Mai aveva provato un terrore simile in tutta la sua vita. Il suo corpo era ancora sconvolto dalla rabbia provata poco prima, ora sommata alla stanchezza e alla paura. Si chinò e vomitò sul prato a fianco.
Non era mai stato più furioso. Era in collera con lei per la sua stupidità, con lui per avergli tolto l’amore della sua vita ed infine con se stesso per quella reazione assurda.
Qualcuno doveva pagare.
Uno stupido compito in classe. Fissò per più di un’ora il foglio senza avere la minima idea o voglia di scrivere. Da quasi un mese ormai la scuola per lui non era altro che un luogo dove versare bile. Neppure si sarebbe accorto del segnale di consegna e dell’uscita del professore, se lei non si fosse alzata di scatto ad inseguirlo, rovesciando il contenuto dello zaino un po’ ovunque.
<< Prof, aspetti, la prego! Ho qui il compito, ho finito! >>
Uscì di corsa dall’aula all’inseguimento. Nella bolgia che si era lasciata alle spalle, lui non poté fare a meno di notare la piccola busta bianca con sopra disegnato un ridicolo cuore rosa. La raccolse mentre tutti erano ancora intenti a discutere delle risposte date e degli errori fatti. Uscì dall’aula con aria indifferente e si diresse verso i bagni.
Aprì piano la busta ed estrasse il contenuto, un foglio bianco con poche righe scritte a mano.
“Stasera avrò lezioni aggiuntive fino alle venti. Se mi attenderai, ci sono tante cose di cui vorrei parlarti. Quando siamo insieme non riesco a comunicarti ciò che provo davvero, ma oggi mi farò forza, sperando che anche tu voglia ciò che voglio io. Un bacio.”
La lesse due volte, poi la fece in mille pezzi a la gettò nel water. Dunque aveva deciso, aveva scelto quell’insulso ragazzino come compagno, e voleva aprirgli del tutto il suo cuore quella stessa sera.
Come poteva aver ignorato così i suoi sentimenti?
Stava per gettare anche la busta, quando prese la decisione. Uscì dal bagno e afferrò la prima matricola con uno zaino che gli passò davanti. Fu sufficiente scuoterlo un po’ per farsi dare un foglio e una penna. Subito si mise a scrivere, poi ricacciò il foglio nella busta e tornò in classe. L’intervallo non era ancora concluso, dunque fu facile gettare la busta tra le cose che lei non aveva ancora raccolto. Non vide o sentì nulla nelle due ore che lo separavano dal termine della giornata scolastica. Solo un pensiero continuava a martellare la sua mente.
Non sarebbe mai stata sua.
25-09-2012, 19:49
Majin Broly
<< Dimmi la verità, c’è lo zampino di Iresa in tutto questo. >>
Videl lo fissava di sottecchi, intenta a rigirare il cucchiaino nel gelato.
<< La mia gelateria preferita, gli abiti, i discorsi. Senza contare il trascurabile dettaglio che quella pettegola non poteva certo trattenersi dal dirmi che le avevi chiesto di darti una mano per essere, come è che le hai detto … un “fidanzato decentemente umano”.
Gohan si limitò ad abbassare la testa ed arrossire. Iresa nelle ultime settimane non aveva fatto altro che prenderlo in giro per i suoi modi e la sua ingenuità. Quella ragazza sembrava frivola, ma si era dimostrata incredibilmente gentile nell’aiutarlo a capire come prendere Videl sul lato sentimentale, laddove sucuramente non avrebbe mai potuto chiedere a suo padre di allenarlo. Certo, avrebbe voluto che sembrasse tutta farina del suo sacco, ma Videl pareva essersi divertita per tutto il pomeriggio, quindi anche se la bionda aveva vuotato subito il sacco non era un problema.
<< Mi chiedo come se la stia cavando stasera. >>
Il saiyan alzò lo sguardo sulla sua compagna, incuriosito.
<< Perché, cosa doveva fare? >>
<< Oh, ancora la questione con Sharpner. Gli va dietro da una vita e quel cretino ancora non se n’è accorto. Negli ultimi tempi era molto giù perché lui le sembrava sempre più freddo e distaccato, dovresti averlo notato persino tu. >>
Gohan ricordava ancora il pomeriggio in cui Iresa era scoppiata a piangere farfugliando qualcosa sul loro compagno di classe biondo, abbracciandolo in mezzo alla gente. Non aveva afferrato il succo del problema, ma Sharpner le aveva fatto qualcosa che l’aveva ferita profondamente. Si era sentito tremendamente in imbarazzo in quel momento, ma la percezione di un intento violento di fronte a lui l’aveva distratto dalla ragazza che gli stava appiccicata. A non più di venti metri il biondo stava avanzando con aria furiosa. Qualunque cosa stesse succedendo, quello aveva prima fatto piangere la sua amica, ed ora si presentava come una minaccia. Gohan aveva tolto per un istante la maschera da liceale, mostrando a Sharpner il volto del guerriero saiyan. Esseri ben più potenti di lui sarebbero quanto meno indietreggianti di fronte a quello sguardo, e il ragazzo non aveva disatteso le aspettative. Prima che Iresa si fosse anche solo resa conto che qualcosa non andava, quello era già sparito.
<< Beh, ci sei? Sembri perso nei ricordi. >>
<< Sì, sì, stavo solo riflettendo sulla cosa. Che doveva fare oggi? >>
<< Beh, le ho detto che mi aveva stufato con questa storia, quindi ha deciso di lasciare un biglietto a Sharpner per incontrarlo stasera, dopo le sue lezioni supplementari. Mi auguro che quei due la finiscano di stressarmi con questa storia, ho già i miei problemi col mio ragazzo mezzo alieno. >>
Videl sorrise, e lui sorrise di rimando.
<< Sharp … >>
Il sangue scorreva in maniera incontrollata dalla ferita nel ventre, laddove era entrata la lama. La ragazza aspettava sotto un albero nel buio cortile della scuola, quando lui era arrivato.
Non le aveva dato il tempo di dire nulla. Lei aveva sorriso, e lui l’aveva pugnalata allo stomaco. Aveva alzato lo sguardo, incontrando il suo, cercando di dire il suo nome.
Era morta prima ancora di finire.
Sharpner adagiò il corpo sotto l’albero e lo mise nel sacco che si era portato. Gettò molta acqua nel punto in cui il sangue aveva formato una piccola pozza, fino a che l’erba non fu pulita al punto da non destare sospetti. Mentre portava il corpo verso l’auto, non poté fare a meno di pensare quanto fosse leggero.
Lo mise nel bagagliaio e guidò fino al parco poco fuori città. A quell’ora, coma si aspettava, era completamente deserto.
Portò il sacco sotto la grande e vecchia quercia alla quale aveva pensato quella mattina. Estrasse il corpo di Iresa e lo appoggiò al tronco, badando bene di sporcare di sangue il prato attorno a lei. Nessuno doveva pensare che non fosse morta lì.
Guardò l’orologio. Non doveva mancare più di un quarto d’ora all’arrivo di Gohan. Ora doveva solo allontanarsi e chiamare la polizia al momento giusto.
Aprì lo zaino per nascondere la busta di plastica con gli abiti sporchi di sangue, quando un oggetto attrasse la sua attenzione.
Non doveva essere lì. Doveva essere nella borsa di Gohan, o nel suo armadietto.
Afferrò la piccola busta da lettere nel suo zaino e l’aprì.
“Caro Gohan, sento il bisogno di parlarti di noi due. Ti aspetterò stasera, nove e trenta, al parco all’uscita ovest della città, sotto la grande quercia. Saremo tranquilli. Baci.”
Per quanto avesse camuffato bene la propria calligrafia, per quanto sapesse scrivere come Iresa sin dalle elementari, quando la metteva nei guai con biglietti di insulti alle maestre, quelle parole erano le sue, il biglietto che aveva scritto a Gohan.
Non sarebbe mai arrivato. Iresa non aveva mai voluto rivelare a quel ragazzino i suoi sentimenti, né si sentiva impacciata di fronte a lui.
Si voltò verso il corpo della ragazza che aveva amato e cadde in ginocchio.
Sharpner non sapeva nulla di resurrezioni, di magia o di aldilà. Come ad ogni altro umano, gli era stato persino negato il ricordo di essere morto. Ai suoi occhi, ciò che aveva fatto non aveva espiazione, né soluzione. Afferrò il coltello e se lo piantò nel petto.
Re Enma non ebbe la minima esitazione. Inviò l’anima di quel ragazzo immediatamente alla purificazione, senza alcuna attesa all’Inferno. Sapeva bene cosa sarebbe accaduto di lì a poco, ed era compito suo fare in modo che le anime tormentate ricevessero il giusto riposo. Son Gohan avrebbe presto chiesto a quell’assurdo drago sulla Terra di riportare indietro le due povere anime che si erano presentate a lui nell’ultima ora. La ragazza, ora in Paradiso, sarebbe tornata in vita, ma non avrebbe permesso che tale destino toccasse anche a quello Sharpner.
Esisteva un motivo ben preciso per cui le anime dannate venivano purificate e reincarnate.
Per i malvagi era una seconda occasione, l’opportunità di fare ammenda per i propri peccati, ma per gli altri, per coloro che non erano corrotti nello spirito, era la sola protezione da una sofferenza senza fine.
Come poteva lasciare che quel ragazzo finisse in Paradiso memore del suo tragico e folle errore, o peggio, che tornasse in vita solo per dover guardare negli occhi la ragazza che aveva sempre amato, leggendo in essi il disgusto per il suo assassino.
Quello era il vero Inferno.
Quando il Drago reclamò l’anima della ragazza, Enma, come sempre negli ultimi decenni, gli concesse di portarla via con sé, ma Sharpner se ne era già andato.
Da qualche parte nell’universo era appena nato un infante, un bambino che non sarebbe mai stato costretto a rimpiangere un tragico errore.
Enma congedò il drago, chiedendosi quando quegli umani avrebbero di nuovo compreso il reale valore della morte, poi guardò di fronte a sé.
Come sempre, infinite anime attendevano il suo giudizio.
Spoiler:
La storia di fatto è un trabocchetto, dato che la coppia che si mette insieme, sviluppa la propria storia e poi viene separata di fatto esiste solo nella testa di Sharpner. Di contorno abbiamo altre due relazioni, stavolta reali, una che nasce, quella tra Gohan e Videl, e l'altra che termina prima ancora di poter iniziare, ovvero quella tra Iresa e Sharpner. Non so se sono uscito dal seminato, ma la storia ad un certo punto si è evoluta da sé. Infine mi è uscita automatica una rilfessione su come la morte in dragonball sia un nulla per i protagonisti, ma resti invece un concetto perfettamente umano per tutti coloro che non sono nella cerchia di Goku. Non so, il lavoro di per sé mi piace o mi fa schifo a seconda dei momenti in cui lo leggo, dunque sono curioso di sapere come appare.
25-09-2012, 21:06
Dargil
Piccolo post con prefazioni varie
Spoiler:
la storia è il seguito del film TDK Rises, nel caso non l'abbiate visto consiglio di evitare la lettura. Prima dell'uscita di TDK fecero un anime che raccontava cosa accadeva dopo Begins, per quanto riguarda la provenienza anime/manga sono apposto quindi. La storia è incentrata su Harley Quinn, già narrata nella serie animata, ma nel mio caso completamente riarrangiata ed adattata alla continuity dei film di Nolan. Ho tentato di riflettere il tema principale di Rises su Joker, ci tengo a dirlo, nel caso vi possa sembrare reso male
25-09-2012, 21:08
Dargil
The Kissing Joke
Nella cella 237 di Arkham, un uomo stava per tornare a sorridere. Non aveva un’identità, né un posto al di fuori di quelle mura, ma solo un sorriso spento da tempo. All’apparenza un orribile sfregio, in verità la sua faccia, il suo simbolo. Divertita espressione che gli occhi nudi non sapevano materializzare, e che necessitava della semplice pittura bianca, rossa e nera per apparire in tutta la sua bellezza. Erano 8 anni che quel sorriso non si era più manifestato, da quando era stato appeso a testa in giù sulla cima del Previtt Bulding ad assistere alla distruzione di Batman. Aveva vinto, non importava più quello che sarebbe successo a Gotham, ora che il Cavaliere Oscuro era stato infranto. Gli stessi 8 anni in cui era sparito nel nulla con la nomina di infame, lasciando Gotham senza Batman, e Batman senza Joker. Poteva tornare a sorridere, entrare nella testa malata di qualche paziente e procurarsi una via d’uscita, ma perché ritornare a giocare senza il suo compagni di giochi preferito, che così maldestramente tentava di apparire normale od addirittura eroico mentre vestito da pipistrello andava a caccia di criminali nella notte? No, Batman era diventato ciò che rifiutava di ammettere dal primo momento in cui era apparso nei cieli di Gotham: era diventato un discriminato, un incompreso che sprecava la sua vita per quelle persone che senza indugi lo avevano ripudiato al primo problema. E quando finalmente era diventato un emarginato come Joker, qualcosa di giusto era accaduto a Gotham. Ma qualcos’altro stava cambiando. Era sulla bocca di tutti e a meno che non fossero dei bugiardi, Batman era tornato. Le voci però erano più articolate di quanto sembrasse, e l’ombra di un uomo con la maschera stava oscurando Gotham. Era riuscito a bloccare la città con un ordigno atomico. Arkham era stata graziata trovandosi al di fuori della morsa terrena di Gotham. Come se non bastasse, Arkham era passata in mano a forze militari politiche degli Stati Uniti appena iniziata l’invasione. E questo, l’uomo chiamato Bane, non era riuscito calcolarlo. O forse non faceva parte dei suoi piani, pensò il prigioniero 237. Un’onda d’urto lo spinse contro uno dei materassi facendolo scivolare in ginocchio. La rivolta era iniziata, lo sapeva, e non da quel momento, ma da quando Batman la sera prima aveva fatto brillare il Gotham Bridge con un gigantesco pipistrello fiammeggiante. Quell’esplosione veniva da altro, però. La porta gli si aprì quasi in faccia, rivelando Zsasz. Ai tempi di Falcone faceva il tirapiedi, anche se ad ogni vittima si faceva un segno sul corpo, usando quello stesso coltello che tanto amava. Non un folle, ma di sicuro un maniaco di quelli adatti a riempire le troppo poche celle di Arkham.
<<Presto>> gli taglio le maniche della camicia di forza <<è il momento di tornare a fare baldoria.>>
<<Da dove proveniva quell’onda d’urto?>>
<<E’ stato Batman, ha preso la bomba e l’ha portata via dalla città. Andiamo!>>
Un pensiero iniziò a crescere dentro 237, mentre percorrevano le varie sale. I detenuti stavano conquistando ogni angolo. Mesi di pianificazione, e di certo non è facile coi pazzi, ma ce l’avevano fatta. Tutto come calcolato. Se l’uomo con la maschera aveva fallito, allora Gotham era pronta per il ritorno del Joker. Un poliziotto era legato per terra, con la fronte sanguinante, 237 lo riconobbe. Edward Nigma, tutto il contrario di quello che dovrebbe essere un agente. Gli piaceva mettere alla prova, presentare indovinelli e testare l’intelligenza altrui per il solo scopo di far risaltare la propria. Se questi venivano risolti, un lieve tic gli attraversava il viso, seguito dal suo dire su come fossero semplici. Ne era ossessionato. Una volta disse che era un inventore e che aveva dedicato tutta la vita ad un progetto studiato per macchinare le onde sonore e creare una mappa virtuale. Aveva il progetto ma non i fondi, così presentò la cosa a Lucius Fox, della Wayne Enterprises, ma questi gli disse che era un qualcosa che andava contro la legge e contro i cittadini, dandogli letteralmente buca. Ecco quindi spiegato il motivo per cui lavorava dentro quel sudiciume. In pochi odiano la Wayne Enterprises come il signor Nigma. Arrivato nella sala grande, 237 prese un coltello e si gettò nella mischia. I soldati erano letteralmente divorati da quella massa di pazzi e maniaci, per questo non gli fu difficile arrivare alle spalle di uno e tranciargli il collo. Dopo un’ora era tutto finito. 237 salì sopra un tavolo, mentre i detenuti festeggiavano. Il prossimo passo era aizzare quel gruppo di animali e liberarli prima a Narrows, poi a Gotham. Stava per ricominciare tutto, finalmente. Un sorriso gli si stava inarcando, quando qualcosa lo fermò prima del tempo.
<<Batman è morto!>> diverse voci, tra cui Zsasz.
237 scese e gli andò in contro <<Che cosa hai detto?>>
<<La bomba l’ha ucciso. Tutta Gotham è in subbuglio, hanno ripreso il controllo e Batman si è fatto saltare in aria lontano miglia dalla costa. Quello stupido idiota è solo cenere!>> sorridendo in tutta la sua eccitazione. Tutta Arkham urlò di vittoria, più di quanto avesse fatto durante la conquista da parte dei pazzi.
Non c’era una sensazione definita per spiegare cosa 237 sentiva dentro di sé. Se aveva vissuto sempre sul momento, forse per la prima volta provò uno spasmo di lucidità, e negli istanti in cui la sua faccia si perse nel vuoto, qualcosa dentro di lui si infranse. In un solo scatto, infilò il coltello tra le budella di Zsasz, che lo fissò atterrito. Lo fece ancora, ancora ed ancora, dove un’espressione mostruosa sul suo volto cresceva di colpo in colpo, ed Arkham gioiva e festeggiava nei confronti della scomparsa di quello che invece era un loro fratello, ora perduto per sempre in mezzo all’atomo.
<<Dottoressa Harleen Quinzel.>>
<<E perché sarebbe venuta qui ad Arkham?>>
<<Studio del paziente 237, anche se mi risulta che da un anno a questa parte lo teniate sempre in isolamento.>>
<<Se lei avesse visto quello che ha fatto durante la rivolta, capirebbe. Come ha fatto a convincere il signor Arkham ad attuare questa buffonata?>>
<<Il gentile Jeremiah Arkham ha concordato con me sul come sia necessario avere uno studio approfondito di un manipolatore come 237. Non vogliamo che i pazienti fuggiti sotto il suo piano rechino ulteriori danni a Narrows o, peggio ancora, a Gotham.>>
<<Quei pazienti non daranno fastidio. Invece di fuggire da Arkham, fuggivano dal Clown. E anche lontano, spero per loro. >>
<<Quello che lei spera conta poco in questa vicenda Agente Nigma. E’ lo stato che ha bisogno di questo provvedimento. Non che 237 sia l’unico del resto. Ho una lista di persone che passano dal vestirsi come spaventapasseri al ritenersi membri illuminati di chissà quale setta.>>
<<Il profilo psicologico del Clown è stato già fatto anni fa dal dottor Strange, non mi prenda in giro. Oggi si può anche far fare una gita scolastica alla Wayne Tower senza che ci sia bisogno di qualsiasi autorizzazione, figuriamoci procurarsi un permesso per questa farsa. Ma non mi riguarda.>> fece come una risata isterica <<Se vuole divertirsi con un pagliaccio dalla mente semplice, faccia pure.>> aprendole la porta.
Aveva il viso pallido e delle lievi ombreggiature negli occhi. Il rossetto nero risaltava con i capelli biondi lasciati liberi sulle spalle. Vestita di un completo nero, aveva un passo elegante e si dimostrava una giovane ragazza da poco uscita dagli studi. La stanza era spartana, con due porte, un tavolo con un paio di sedie, i classici vetri e delle telecamere rotte, come ogni apparecchio elettronico ad Arkham da quando era scoppiata la rivolta. Gotham era risorta, ma distrutta. Molti criminali erano ancora liberi ed era richiesto un’enorme sforzo da parte di tutti i cittadini, di Gotham e Narrow, affinché si potesse ricostruire tutto. Il direttore di Arkham propose di mandare guardie e pazienti affinché aiutassero Gotham, lasciando l’edificio praticamente deserto, con poche guardie ed i soggetti più malati o pericolosi. 237 stava seduto, incatenato, senza degnare di uno sguardo Harleen. Lei non si scompose, sedendosi e spargendo sul tavolo i suoi fascicoli. Conclusa l’operazione, Harleen si mise a guardarlo direttamente in faccia, con un’espressione soddisfatta sul viso. Lui continuò a fissare il punto invisibile sulle sue mani appoggiate sul tavolo. Harleen prese uno dei suoi fascicoli e lo sfogliò, iniziando a leggere:
“Studio del paziente 237 ad opera di Hugo Strange. Nome criminale riconosciuto come Joker. Il paziente non ha origini definite, senza dati digitali o familiari. E’ un associale, un discriminato che si isola da ogni forma sociale, finché non ne ha bisogno per i suoi scopi. Le cicatrici non permettono un raffronto definito sul fatto che siano o meno state applicate dal paziente stesso. Per quanto riguarda gli attacchi terroristi, molti dati portano alla semplice contrapposizione con il criminale Batman. Non si sa se ci sia un legame tra i due, ma l’ossessione di Joker nei suoi confronti è stato tale da far pensare ad una complicità durante gli avvenimenti che hanno portato alla drammatica morte di Harvey Dent. Il paziente si dimostra poco aperto ad una qualsiasi forma di vita sociale e non, rivelando un carattere debole, infantile ed arrabbiato, alla stregua dell’odio adolescenziale, nei suoi goffi tentativi di portare caos e distruzione seguendo un’idea distopica.”
237 fece un lieve sorriso, continuando a guardarsi le mani.
25-09-2012, 21:09
Dargil
<<Questa era solo l’introduzione. Hugo Strange ha letteralmente distrutto personaggi come lei e Batman.>>
<<Hugo Strange è un povero fallito che straborda gelosia da tutti i pori. Venne qui per studiarmi, durando a malapena 20 minuti nelle ore concesse. Rimase atterrito quando si accorse che tutto quello che aveva pianificato non andava per il verso giusto. Se l’era preparato proprio per bene il suo discorso, e quando era troppo tardi, fuggì come un cane. Oh ma lui lo sapeva, di sembrare un cane, rendendo il tutto ancora più divertente.>> alzando gli occhi <<Che cosa vuole, dottoressa->>
<<Quinzel. In questo istante non ci sta guardando nessuno, né ci stanno sentendo.>>
<<Si?>>
<<Nove anni fa c’era un uomo, Bryan Darrins. Lavorava nei cantieri, aveva la passione per l’hockey ed una famiglia composta dalla moglie e la figlia piccola. Si faceva vedere di rado dai suoi familiari, e le poche volte che accadeva era ubriaco, picchiandole entrambe. Le odiava, dicendole cose terribili. Un giorno apparve Batman e questo lo colpì molto, facendo nascere da qualche parte nella sua testa l’idea di imitarlo. Lasciò il lavoro, ma non avevamo abbastanza soldi per permetterci le sue armi, così io smisi di andare a scuola, e mia madre fu costretta a dargli tutti i suoi risparmi, mai che non potesse bere. Poco tempo dopo venne trovato impiccato di fronte all’ufficio del Sindaco, ad opera di un certo Joker che ne aveva filmato gli ultimi istanti.>>
Cadde il silenzio. Poi 237 scoppiò a ridere, quasi come se la sbeffeggiasse.
<<Vuole dirmi che ha fatto tutta questa strada soltanto per un ringraziamento? Molto divertente.>>
Harleen apparve leggermente a disagio <<Non si tratta di averlo semplicemente ucciso.>>
<<Ah no? Che cosa allora?>>
<<Se anche si vestiva da Batman, rimaneva comunque un porco ingrato. Fu allora che capii che quello che agli occhi di tutti è un eroe, agli occhi di chi gli sta vicino si dimostra come è realmente. Il simbolo è solo una stupida copertura per nascondere ogni tipo di uomo>> avvicinando il viso a quello di 237 e abbassando la voce <<compresi quelli come te.>>
<<Come prego?>> sorpreso e divertito. Una donna spuntata dal nulla gli raccontava il proprio passato. Proprio a lui, terrorista maniaco che aveva fatto impazzire Gotham. Il mondo era strano. <<Pensavo che fosse grata.>>
Ritornò a sedersi normalmente <<Lo sono, di molto anche. L’unico rimpianto è non averlo potuto uccidere con le mie mani.>>
237 assunse un’espressione divertita <<Sai, quando ho tagliato la gola a tuo padre, implorava di lasciarlo vivere>>
<<Mai pensato il contrario>>
<<Ma non è finita qui. Diceva di avere una moglie ed una figlia e che dipendevano da lui, che nel profondo le voleva rivedere almeno un’ultima volta. Vedendola ora dottoressa, forse avrei dovuto lasciarlo vivere>> lanciando un’altra risata.
Harleen notò che senza pittura il suo viso diventava qualcosa di informe<<Inutile che continui con questo atteggiamento. Io ti capisco, devi solo lasciarmi entrare nel tuo mondo.>>
237 diventò serio <<No, non è vero. Sei una ragazzina che si vanta della sua vendetta, ma non l’ha assaporata. Se fossi messa di fronte alla possibilità di uccidere una persona, mentre piange e geme di fronte a te, saresti esattamente come tutta quella brava gente fuori da questo posto, con troppa paura di fare il passo più facile.>>
<<Ti sbagli>> appoggiando le sue mani su quelle di 237 <<e presto lo capirai. Questa città ha bisogno di una persona come te. Chi ti dà del criminale ti reca soltanto offesa. Ed un simbolo come te ha bisogno di qualcuno capace di comprenderlo al suo fianco.>>
<<Questa città non ha bisogno di nessuno. Batman è morto.>>
<<Potresti rimanere sorpreso.>> togliendo le mani dalle sue ed alzandosi. 237 a quell’affermazione fu come scosso.
<<Ritrova il sorriso, Joker, perché la prossima settimana avrai molto di cui essere contento. Te lo prometto.>> andandosene.
237 la vide sparire. Non credeva ancora a quello che era successo. Una psicopatica che si spacciava per medico era riuscita a parlargli, facendogli come una dichiarazione d'amore. Non sapeva se ridere o essere perplesso. Rimase dubbioso, fissandosi la faccia riflessa sullo specchio di fronte. Abbassò la testa di nuovo sulle mani. Questa volta c’era qualcosa. Una carta. Un Jolly ghignante con un bacio nero stampato sopra.
<<Batman è tornato.>>
<<Bugiarda.>>
<<Dico per davvero. Quel suo segnale nella notte è tornato a brillare. Ma non si tratta solo di quello. Ci sono diversi avvistamenti che parlano di un individuo molto simile, praticamente uguale, che sta dando la caccia ai criminali sparsi per Gotham e Narrows. Voci provenienti da alcuni detective, parlano di criminali su criminali svenuti nei pressi del distretto di polizia.>>
237 pensò si trattasse di un altro individuo, ma cosa poteva saperne lui dell’effettiva morte di Batman, quando aveva passato tutto il tempo rinchiuso lì dentro? Era un’idea che gli girava in testa da un po’ di tempo quando, mesi prima, l’agente Nigma affermava che se anche era uno stolto, Batman non era completamente stupido. In qualche modo in possesso di fondi illimitati, pilotare una tale creatura senza le dovute precauzioni sarebbe stato troppo stupido. Ne teorizzò anche l’identità, trovando dei legami con un cittadino molto famoso a Gotham. In quell’occasione 237 lo ignorò. Batman era Batman, non doveva avere altre identità, così come Joker. Quinzel gli stava di nuovo di fronte e continuava a parlare di questa storia, cosa che creava una certa sensazione dentro 237. Tutta la settimana era stata turbolenta, lasciandolo dubbioso e pieno di pensieri a fronte di quell’ultima affermazione della donna. Bisognava metterla alla prova e vedere quanto era realmente stupida.
<<Harleen Quinzel, che nome buffo. L’altra volta mi hai definito un simbolo che aveva bisogno di qualcuno al suo fianco, si? E perché credi di poter essere tu?>>
Harleen, stranamente leggiadra rispetto all’ultima volta, disse <<Te l’ho detto, io posso capirti e tu puoi condividere con me i tuoi segreti.>>
<<Una presunzione non nasce dal nulla. Perché hai cambiato il tuo nome proprio in Harleen Quinzel?>>
Fu come se fosse a disagio, mentre le guance pallide arrossirono lievemente.
<<C’erano delle notti in cui mio padre tornava a casa più ubriaco del solito. Rientrava a notte fonda e spalancava la porta di camera mia con violenza, svegliandomi>> guardò in basso e strinse le braccia tra le gambe, o almeno così sembrò a 237 <<Avevo un pupazzo, Arlecchino. Era mio, nessuno me lo aveva regalato, l’avevo trovato da sola, nella discarica. In quei momenti lo stringevo sempre forte, il suo sorriso mi scaldava. Non era un sorriso falso, come quello che assume la maggior parte della gente. Era qualcosa di crudele, spontaneo e dritto dal cuore. Mi dava sicurezza e soprattutto la certezza che un giorno ci sarebbe stata giustizia. Quel giorno fu Joker a farlo.>>
237 stava capendo. Non c’era una logica in quella storia, nemmeno la stupida scusa della vendetta. C’era una ragazzina che vedeva in lui i suoi sogni avverarsi. Pensava di averci instillato un rapporto unico da quando lui stesso aveva ucciso il padre aguzzino. La ragazza si stava smontando come un giocattolo mal costruito, lo si vedeva da come cadeva in imbarazzo ad ogni suo sguardo. Era pazza di lui. E forse pazza di per sé.
<<Oh, vedo che sei tesa. Parlare di tuo padre ha rievocato in te dei ricordi, non è così?>>
Il volto di Harleen si fece scuro <<Si.>>
<<Ma non si tratta solo di ricordi. Riaffiorano anche le sensazioni di quei momenti. L’odio, il rancore, la paura e soprattutto, la voglia di vendicarti, si?>>
<<Si.>>
<<E questa voglia può essere sfogata. Vedi, basta solo l’iniziativa, e tu mi dai l’idea di saperla prendere per davvero. Ti va di fare uno scherzo?>> assumendo un sorriso arlecchinesco.
Harleen alzò lo sguardo, rideva
<<Sì.>>
La guardia entrò come previsto. Non era Nigma, occupato a riempire il suo giorno libero, ma un cittadino comune che viveva in uno scantinato con quel poco che si guadagnava come guardia ad Arkham. Meglio fare la guardia a quel museo piuttosto che perdersi tra le rovine della ricostruzione di Gotham. Il problema però, era che bastava qualsiasi persona per far parte del malvagio scherzo capitanato da 237. Appena entrato, Harleen lo colpì sulla nuca, facendolo svenire. Nei confusi istanti di dormiveglia, si ritrovò incatenato sulla sedia al posto dello sfregiato, con la bocca imbavagliata. Bavaglio inutile. Erano a malapena 10 le guardie presenti nel complesso, la sicurezza era ai minimi storici. Ma questo non importava. Lo sfregiato gli stava di fronte, osservandolo attentamente mentre inclinava la testa con quel suo modo di fare. La guardia fu inizialmente sorpresa di notare che la dottoressa aveva in mano il suo manganello. Nessun attimo di speranza gli passò per la testa, nemmeno l’idea che la donna usasse l’arma contro il detenuto. Era lei il carnefice e lui, l’agente, la vittima. La donna pareva agitata, non era chiaro se eccitata o in qualche modo spaventata. Nel suo dubbio, l’agente la implorò con lo sguardo, ma questo la fece apparentemente arrabbiare. Lo sfregiato la guardava e le diceva che poteva farcela, che non era assolutamente difficile fare ciò che avrebbe dovuto fare da sempre, appoggiandole una mano sulla spalla. Colta da una specie di furia, iniziò a colpirlo di violenza sullo stomaco, per poi passare alla testa. Ad ogni colpo il mondo dell’agente diventava sempre più buio. Ironicamente, riuscì a contare quanti gliene diede, 9, prima di sentire la propria testa letteralmente alleggerirsi. L’ultima scena che vide fu la donna in lacrime che saltava sul petto dello sfregiato, mentre il cervello gli colava lentamente dal naso.
25-09-2012, 21:11
Dargil
Narrows era spenta, illuminata soltanto dai residui delle stelle non coperte dallo smog. Alcuni raggi lunari filtravano attraverso un’immensa nuvola ad est, anche se illuminavano per lo più Gotham. Harleen era seduta al limite del tetto, il vestito da ballo nero e sporco in più punti di un sangue rosso vivido. Si sentiva libera e soddisfatta, dopo l’omicidio di 10 persone, quella notte. Ad ognuna di essa, ad ogni viso sofferente, ad ogni gemito finale, sentiva i pensieri alleggerirsi, quasi scomparire, lasciando spazio al divertimento più assoluto. Il suo amato aveva assistito ad ogni omicidio senza dire niente, escludendo il primo agente. Lei poteva notare una crescente soddisfazione nel suo viso, come se approvasse volta per volta le sue azioni. Questo la faceva impazzire di gioia. Erano andati a recuperare i rimasugli del Joker di 9 anni prima, mentre il trucco lo aveva portato direttamente lei. Ora 237 stava tornando a diventare ciò di cui Gotham aveva bisogno, dopo tanto tempo. Era poco più dietro di lei. Joker si voltò. Sembrava davvero un’eternità dall’ultima volta in cui si era messo a ridere, ma ora stava succedendo. Tra quelle poche luci a Gotham, una più di tutte attirava la sua attenzione. Quel segnale… era vero allora ciò che la ragazza diceva. Questo gli fece venire una voglia matta di scoppiare a ridere, roba da torcersi le budella. Andò verso la ragazza seduta, senza farsi sentire, ed avvicinò le mani sul suo collo. Per un istante rimase fermo, conscio di poterla afferrare e stritolarla sul momento. Invece le alzò, ed appoggiò le dita sulle sue labbra, tracciando delle scie con i rimasugli del trucco rosso avanzati sulle mani. Lei non si mosse, aspettò che finisse. Quando si girò Joker disse
<<Il sorriso ti dona.>>
Lei sorrise mostrando i denti bianchi ed inarcando ancora di più il segno rosso che copriva le guance e le labbra, che mantenevano comunque il rossetto nero. Guardandolo in faccia, si accorse si un piccolo taglio sotto l’occhio destro, ormai diventato cicatrice. Joker se ne accorse.
<<L’ultimo regalo di Batman. Così ingrato. Gli stavo raccontando una storia.>>
<<E’ per lui che hai ucciso tutti quei detenuti, un anno fa, ho ragione?>>
Joker ricordò quell’avvenimento. Era perfettamente lucido, ma impazzito. Aveva ucciso chiunque gli capitasse tra i piedi, facendo fuggire terrorizzati gli altri prigionieri.
<<Loro erano un branco di stolti. Anche se si tratta del tuo peggior nemico, c’è bisogno comunque di rispetto.>>
<<Perché eri ossessionato da Batman?>>
“Non puoi capire”, pensò Joker
<<Perché stava diventando un ipocrita, piccola Harley. Se riesci a riassumere un’epoca intera in una sola persona, allora otterrai qualcosa di simile a Batman. Lui credeva di essere la parte nascosta, quella giusta ed eroica che Gotham, o qualunque altra città fosse, contenesse sotto la maschera di paura e corruzione. Ho dimostrato che era lui ad essere la maschera, che la vera Gotham è fatta di persone come me, nel loro piccolo. Gli ideali, quelli che tentava di proteggere spacciandoli per suoi, quelli erano solo uno stupido scherzo.>>
Harley si alzò andandoci faccia a faccia. Joker pensò che bastava una spinta, una sola piccola spinta per farla precipitare giù.
<<Eppure non riesci a togliertelo dalla testa. Cos’ha di così speciale da fartelo entrare in ogni tuo pensiero? Perché pensi ancora a lui ora che ci sono io?>> avvicinandosi così tanto da far toccare i corpi.
<<Be’, forse concorderai con me. Non pensi anche tu che lui sia troppo divertente?>> scoppiando in una risata compiaciuta. Ma Harley lo interruppe con due dita sulle labbra. Iniziò a percorrergli le cicatrici, prima a destra e poi a sinistra, tracciando tutti i rilievi. Poi lentamente avvicinò il viso al suo, arrivando poco a poco ad appoggiare le labbra alle sue.
<<Ed ecco che il cerchio si chiude>> disse Joker prima che lei potesse baciarlo. Lui la spinse dolcemente di lato e si girò a destra
<<Vero, Batman?>>
Harley non se ne era accorta. Una figura scura che risaltava a malapena tra le ombre. Ad un certo punto ne uscì. Joker aveva il volto soddisfatto. Quando i pochi raggi di luna riuscirono a superare le putride nuvole di Narrows, l’individuo era finalmente rivelato. Indossava un cappuccio, protesi del lungo mantello nero che aveva alle spalle. L’armatura era molto simile a quella che Joker ricordava, ma apparentemente più leggera, con le braccia scoperte nella zona del gomito.
Joker alzò le braccia <<Ti sono mancato?>>
La figura gli si avventò in contro. Joker negli anni aveva perso la forma, ma non la capacità di improvvisare. Prese Harley e la gettò incontro a Batman. Lui la scostò velocemente, ma non tanto quanto la velocità con cui Joker raccolse un tubo di ferro ed estrasse uno dei suoi coltelli. Usò il tubo e lo colpì nel basso ventre, facendo partire un contrattacco da parte di Batman dettato da una parata di gomito e successivo sgambetto. Nell’istante in cui stava cadendo, riuscì ad infilargli il coltello tra le costole, ma stavolta pareva che la protezione fosse più resistente, facendo partire subito un pugno verso la faccia ghignante che crollò a terra insieme al resto del corpo. Batman lo afferrò con entrambe le braccia per il camice, ma Joker aveva già estratto un altro coltello, mirato in uno dei punti scoperti che aveva intravisto cadendo. Questa volta il colpo fece effetto, e Batman lo lasciò indietreggiando goffamente. Joker ne approfittò usando il vecchio trucco del coltello sulla scarpa e gli tirò un calcio sull’ombelico con tutte le sue forze, sempre da sdraiato, facendo indietreggiare ancora di più la figura nera. Appena rialzato, gli si avventò in contro iniziando a colpirlo ripetutamente col tubo di ferro. Funzionava, finché Batman non si rimise composto parando volta per volta i colpi con i suoi bracciali. Quei dannati bracciali e quelle dannate lamette. Parata un’altra serie di colpi, diede un calcio che spinse Joker lontano. Nell’istante in cui Joker riprendeva il controllo, Batman estraeva un oggetto da dietro la cintura. Grosso quanto un telecomando, di forma cilindrica, improvvisamente si allungò da entrambi i lati, rivelandosi un bastone fatto da chissà quale materiale. Joker si lanciò istintivamente alla carica col suo passo gobbo, ma il vigilante nero disponeva di un’arma letale. Facendo girare con entrambe le braccia il bastone, riuscì a parare e disarmare Joker del tubo, ripagandolo subito dopo di un colpo allo stomaco successivamente alzato in pieno viso. Mentre sentiva il sapore del sangue, Joker estrasse altri due coltelli. Provò un affondo schivato con una giravolta, subito seguita da un colpo dritto sulle costole. Ma non si arrese, e tentò un colpo a mezzaluna che venne schivato da Batman abbassandosi e facendo partire un altro colpo di bastone dal basso all’alto. Questa volta lo colpì al mento, facendogli per un attimo vedere le stelle. Cadde rovinosamente all’indietro, lontano anche. Forse sempre per istinto, riuscì a lanciargli uno dei coltelli al volo. Venne parato facilmente col bastone, come per ribadire quanto fosse blanda la sua tecnica. Era per terra, sconfitto. Il vigilante gli si avvicinò, bastone ritirato da come era apparso. Joker non fece a meno di notare una figura dietro le spalle di Batman. Un martello gli colpì in pieno la parte sinistra della faccia, facendolo rantolare per terra. Harley iniziò a colpirlo prima sulle gambe, poi sulle costole, mentre si dimenava inutilmente per riprendere il controllo. Joker era quasi estasiato da quella vista. Harley rideva, rideva in modo ossesso. La dentatura bianca brillava in mezzo alla striscia rossa che partiva da un orecchio all’altro. Continuò, ed intanto Batman sembrava come perdere sempre di più le forze.
Non era la prima volta che Joker sentiva una sensazione indefinita, e vedendo Harley in quel modo, ripensò ad Harvey Dent ed al suo ghigno mostruoso da uomo diviso. Si alzò, a fatica ed imprecando a denti stretti tenendosi la mano su una costola. Si avvicinò ad Harley prima che potesse colpire la testa inerme, fermandole il braccio in tempo. Lei lo guardò come stupita.
25-09-2012, 21:12
Dargil
<<Joker?>>
Lui la attirò a sé, togliendole lentamente il martello di mano e gettandolo lontano. Petto contro petto, porse le braccia come se stessero per danzare.
<<Harley, Harley, Harley Quinn. Che cosa devo fare con te?>> iniziando una lieve giravolta, con lei che accompagnava i suoi passi di ballo. Non molto lontano, si sentirono delle sirene.
<<Cosa c’è? Ho sbagliato qualcosa?>> chiese lei con una faccia infantile.
<<Oh no, sei stata bravissima. Anche troppo.>> facendo andare avanti le giravolte.
<<C’è solo questo problema, e spero tu possa capirmi.>> finendo la giravolta e lasciandola andare in un lieve trotterellare, tenendole sempre la mano. Finiti i suoi giri, si trovò sul bordo del tetto, tenuta di peso solo da Joker.
<<Ho avuto quest’immagine, di te ed una vita non ordinaria. C’è un alto potenziale nascosto sotto quel viso bambinesco, ma il dubbio mi assilla. Tu chi sei?>>
Harley, che non riusciva a capire che cosa intendesse, disse <<Harley Quinn, me l’hai dato tu quel nome. Io sono parte di te, siamo insieme, si?>>
Joker rise a conati <<Ecco a che cosa mi riferivo. Ti ricordi cosa mi hai detto una settimana fa? Te lo dico io. Hai detto di capirmi. Pensi che avere subito degli abusi da piccola ti dia la facoltà di indossare vestiti sporchi di sangue, o di truccarti la faccia come una sgualdrina?>> Harley non capiva.
<<Guarda la mia faccia, ad esempio>> disse in tono quasi rabbioso <<Te l’ho detto come mi sono fatto queste cicatrici? No, e nel caso te lo dicessi, sarebbe soltanto una di tante storie.>> la voce gli si abbassò di volume, assumendo un tono serio <<Se vuoi avere per forza un passato, allora farai meglio ad avere più opzioni possibili. Oh, piccola Harley, credi davvero che l’avere avuto qualche brutta giornata ti conceda il diritto di essere ciò che sei diventata durante la nostra luna di miele ad Arkham? Non importa cosa ti sia successo o come, quella maschera continuerà a sbiadire e dietro ci sarà sempre e solo Harleen Quinzel, o qualsiasi sia il tuo vero nome. Non riesci a liberarti del tuo passato e pensi di poterti affidare a me per questo. Liberatene, cancellalo, se proprio vuoi diventare Harley Quinn. Altrimenti torna nella discarica, perché non sei poi tanto diversa da quella bambola trovata da piccola: un semplice pupazzo senza volontà.>>
Harley piangeva <<Ma io ti amo>>
Joker assunse un’espressione melodrammatica, alzando la testa come per guardarla dall’alto al basso, con un tono di voce quasi grave
<<Oh, ma lo so, certo che lo so! Ed è per amore che lo faccio.>>
Lasciò scivolare lentamente la mano di lei, poco a poco. Continuava a fissarla negli occhi, per la prima volta così sinceri ed innocenti. C’era davvero del potenziale.
Arrivato all’orlo delle dita, lasciò la presa.
Poi le strinse di nuovo la mano. La tirò verso di sé e le diede un destro in pieno viso. Lei crollò a terra, svenuta. Dopo un istante di silenzio, Joker tirò un lungo sospiro. Si girò verso Batman, o quello che gli aveva rubato il costume. Così inesperto, così arrabbiato. Solo una stupida come Harley poteva credere che fosse il vero Batman. Gli andò vicino, e si sedette a gambe incrociate. Ma volle crederci fino alla fine. Volle credere che fosse Batman, l'unica persona capace di completarlo, di occupargli i pensieri durante le notti solitarie, di portargli felicità quando si trovava in mezzo a pazzi con la bava alla bocca e quando, ogni tanto, di farlo ridere quando le guardie lo picchiavano urlandogli di essere un mostro. Quelle botte non gli facevano il minimo effetto, o almeno, non lo stesso effetto che aveva quando veniva picchiato dal vigilante in nero. Sperava per davvero, in una dimensione ingenua quanto l'amore di Harley, che quel balordo fosse il vero Batman che tanto amava. Il ragazzo era sveglio, piuttosto stordito, ma pur sempre sveglio. Alzò la testa, e nel compiere il movimento gli cadde il cappuccio. Una frazione così semplice e simile che sembrava il cuore di Joker in quell'istante, nell'assistere alla scena.
Peccato, pensò.
Joker lo fissò nostalgico.
<<9 anni di assenza e l’unica cosa che Gotham sa offrire sono delle copie. Immagino che avessimo ragione entrambi, io e Batman.>> scoppiando a ridere di gusto. O di amarezza, non era così concreto. Le risate erano a singhiozzi e poco controllate. Continuò a ridere cadendo all’indietro. Con gli occhi rivolti al cielo, il suo ghigno risuonò in tutto il tetto. La polizia sfondò la porta, giusto in tempo per urlare l’avvertimento prima che quel ragazzino vestito da pipistrello si alzasse malamente per sparire nel buio. Joker venne afferrato, ma continuava a ridere. Lo trascinarono per le spalle, coi le gambe a terra. Il sudore gli aveva fatto sciogliere lievemente il trucco, facendo cadere una goccia di nero sulla cicatrice, che provata dall’umidità, aveva fatto colare una lacrima nera. Joker guardò ciò che rimaneva del mondo esterno. Una donna svenuta per terra e come sfondo Gotham abbagliata dal fascio di luce di Batman. Gli occhi assunsero un’espressione nostalgica ma sollevata. Stava per tornare a casa.
Questa volta per sempre.
26-09-2012, 13:28
Il Nicco
Mi è venuta adesso un'idea sfruttabile ma sicuramente non potrò connettermi fino a domani sera. Posso chiedere una proroga di un paio di giorni per poter scrivere e ricontrollare?
26-09-2012, 15:05
Light 96
Citazione:
Originariamente Scritto da Dargil
Piccolo post con prefazioni varie
Spoiler:
la storia è il seguito del film TDK Rises, nel caso non l'abbiate visto consiglio di evitare la lettura. Prima dell'uscita di TDK fecero un anime che raccontava cosa accadeva dopo Begins, per quanto riguarda la provenienza anime/manga sono apposto quindi. La storia è incentrata su Harley Quinn, già narrata nella serie animata, ma nel mio caso completamente riarrangiata ed adattata alla continuity dei film di Nolan. Ho tentato di riflettere il tema principale di Rises su Joker, ci tengo a dirlo, nel caso vi possa sembrare reso male
Quindi se un giudice non l'ha visto non ti può giudicare? :D
26-09-2012, 15:06
Dargil
Mi spiacerebbe rovinargli il film, alla fine partecipo al torneo solo perché mi piace scrivere, la questione voti non mi importa
26-09-2012, 16:25
Light 96
Il principe e la rosa
Lei. Lei era ormai per lui più importante di molte altre cose per quanto gli costasse fatica ammetterlo.
Eppure era così. L'amore aveva colto nel segno anche con lui, il Principe.
Quel soprannome era solo dovuto alla sua parentela e a suo padre, uno dei più temibili re dell'intero universo.
Ma chiunque lo conoscesse sapeva benissimo che i modi principeschi non gli erano mai appartenuti. Aveva sempre fatto della violenza il suo pane quotidiano. Proprio come un principe delle fiabe era orgoglioso, egoista e presuntuoso e adorava combattere.
Improvvisamente però, era cambiato.
Aveva deciso di snaturarsi per amore di lei, la sua rosa.
Già, pian piano aveva cambiato la sua mentalità.
E senza volerlo, o forse volendolo inconsciamente, aveva incominciato ad affezionarsi a quello stupido pianeta e all'ancora più stupido marito dell'amica di sua moglie.
Ricordava ancora il primo vero incontro con la sua rosa.
Era stato prima dell'arrivo di quegli androidi.
La prima volta che l'aveva vista non aveva avuto una buona impressione.
D'altronde lei era solo una stupida donna.
Non sapeva esattamente cosa fosse scattato in lui ma quando il ragazzo dai capelli viola era giunto su quella rupe qualcosa era cambiato.
Lei aveva mollato l'allupato e si era ritrovata sola.
I suoi modi bellicosi, da ragazza che non doveva chiedere mai, e il suo estro creativo avevano portato lui, Il Principe dei Principi, ad indebolirsi e a provare qualcosa di più di una semplice attrazione fisica.
Dire che lei non era bella sarebbe stato come dire che il sole non è luminoso o che i terrestri fossero una popolazione molto forte.
Le sue forme avevano fatto sognare diversi uomini, dal vecchietto arrapato allo sbarbatello che, come quel famoso attore, ballava coi lupi.
Secondo le voci che giravano, anche la sua nemesi, in giovane età non era rimasto indifferente e, senza il suo consenso, aveva avuto con lei le prime scoperte sulla femminilità e la mascolinità.
Il Principe d'altro canto era anche lui un bell'uomo ed era scontato che vi fosse tra loro due una potente attrazione fisica.
Dopo poche settimane, infatti, i due avevano già condiviso lo stesso letto e le abili mani del selvaggio principe si erano già posate sulle forme della Rosa.
Era disposto ad accettare tutto quello finché era solo sesso.
Ma poi era giunto l'amore, seguito dal matrimonio e seguito dalla nascita del loro frugoletto.
Un bel maschietto che in quel momento poteva rappresentare la salvezza del futuro del pianeta.
Era incredibile come fossero strane le meccaniche della vita.
Era bastata una donna, una gran bella donna, molto testarda per fargli seguire la retta via.
La cocciutaggine di quella scienziata l'aveva reso buono e lui, il principe spaziale, aveva messo su famiglia sulla Terra, uno dei posti più odiosi che avesse mai visitato.
Era rimasto a contatto con il pelato, l'uomo lupo, il vecchietto eccitato, il tris-occhiuto, il gatto rompiballe, il maialino chiacchierone, il suo nemico e la moglie insopportabile, il bimbetto fastidioso e il secchione guerriero.
Tutte persone che fino a pochi anni prima avrebbe spazzato via con un colpo.
Ora aveva sempre la voglia di massacrarli tutti ma non lo faceva perché lo riteneva SBAGLIATO.
Il principe rise di gusto pensando a questa parola.
Era convinto che tutte le volte che pensava che uccidere fosse sbagliato, qualcuno lassù in Paradiso sentiva la necessità di fulminarlo sul posto.
Quanta gente aveva mandato lassù? Quanta gente non era più tornata?
Era veramente bastata una rosa come lei per fargli cambiare così repentinamente convinzioni?
Evidentemente sì...
Certo, aveva mantenuto lo spirito combattente, il caratteraccio e l'ira facile ma ora non era più un volgare criminale.
Il Principe scosse la testa.
Eppure, poco prima, aveva ucciso a sangue freddo e con un solo colpo un mucchio di innocenti che erano lì solo per divertirsi e godersi un bello spettacolo.
In quel momento, persino la sua dolce metà non l'aveva riconosciuto.
Quanto di quel gesto era dovuto ad un ira sopita dentro di lui e quanto a quello strano segno che portava sulla fronte?
Eppure ciò che stava per fare lo faceva con giudizio.
Pensò a tutte le persone a cui aveva imparato a volere bene a suo modo.
Pensò che tutto questo era dovuto all'unica persona che amava più di ogni altra cosa.
Smise di pensare e si preparò a quello che stava per fare.
Vide il ciccione rosa e scese sul campo di battaglia.
Una luce cominciò ad avvolgerlo.
Il mostro caramella lo vide, capì quello che stava per fare.
Lanciò dalla cima della sua testa un raggio giallo.
Quel piccolo umano l'aveva stufato.
Il Principe cercò di scansarsi ma l'inizio dell'autodistruzione gli impedì di muoversi.
Mentre diventava un piccolo cioccolatino, l'ultimo pensiero fu per la sua Rosa. Aveva fallito questa volta. Se ne sarebbe per sempre rammaricato.
Il mostro si divorò quel pezzetto di dolce.
Mentre lo digeriva, il suo cervello registrò l'immagine di una ragazza molto bella e formosa con dei bei capelli azzurri.
I pensieri del Principe ora vivranno per sempre.
FINE
Fanfic diversa dal mio solito e sono tornato di nuovo alle shortshot dopo la mia prima.
Come quella che fece Feleset non nomino mai i nomi dei personaggi ma ovviamente è chiaro di chi stiamo parlando.
Ho cercato di rendere al meglio il flusso di pensieri.
Ho pensato a lungo ad un finale adeguato e ho pensato di modificare il corso degli eventi in modo da garantire il finale inedito previsto dalla traccia.
Non mi sembra che sia proibito modificare una scena del manga.
Quindi ho deciso di far morire il protagonista ucciso dal suo avversario invece che tramite suicidio.
Questo turno lo prevedo male ma almeno sono riuscito a consegnare.
26-09-2012, 18:38
TOB
Quasi completata la shot, sarà (credo) la mia più lunga finora.
Editerò questo post nel caso rimanesse l'ultimo del topic anche più tardi.
EDIT: Argh, il finale! Non riesco a trovare un finale decente! D:
26-09-2012, 19:29
sssebi
Ok, 3 giorni di proroga direi che si potrebbero dare, il tempo che serve al Nicco, nel frattempo TOB può dare una ricontrollata alla sua shot e cercare un buon finale. Mancano poi Rowelence e Dragon, ma a quanto hanno fatto capire sono a buon punto.
Data scadenza posticipata alle 23:59 del 29 Settembre, se finite prima ovviamente è meglio. Nel frattempo noi giudici ci terremo comunque impegnati a leggere le shot postate.
26-09-2012, 19:36
Dragon Slayer
SINOSSI
Spoiler:
Per la shot ho preso in esame il manga di Silent Hill 2 e ho utilizzato come base uno dei finali del videogame. La storia in questione è un sequel di "Maria", una delle ending disponibili ed è altamente psicologica, quindi nel caso vogliate comprenderla fino in fondo vi linko la pagina di wikipedia, che ritengo molto completa.
Lo stile ovviamente viaggia tra il drammatico e l'horror, ho differenziato le due fasi per creare un forte legame narrativo.
IN MY RESTLESS DREAMS, I SEE THAT TOWN
Tra le strade della cittadina aleggiava la nebbia, così assoluta e desolante. Non una semplice foschia, una vera e propria nube biancastra che celava il panorama agli occhi della popolazione che non c'era.
James si ritrovò sperduto in mezzo a questa città, annusando l'odore umido della solitudine, mentre tentava di orientarsi nel complesso urbano. Questo posto gli era familiare.
Dopo una lunga camminata, egli vide un piccolo cortile circondato da una rete di ferro. La porta era chiusa, ma la ruggine aveva logorato la serratura, abbastanza da permettere all'uomo di sfondarla con un paio di calci. All'interno vi trovò una radio, apparentemente rotta, ed una mappa posta sopra ad un tavolo, che mostrava l'intera planimetria del paese. Silent Hill. Anche questo nome gli era familiare, ma non riusciva a rimembrare dove l'avesse sentito.
Nella cartina era segnato un luogo, “Rosewater Park”, e affianco vi era disegnato un triangolo; vista la mancanza di alternative, decise di andarci, spinto dal proprio istinto.
<< Signora, suo marito è venuto a farle visita. >>
James entrò nella camera dell'ospedale. Era pulita e ordinata, c'era anche un televisore ed una finestra, il panorama non era certo mozzafiatante, ma perlomeno la luce del sole filtrava all'interno e ravvivava un po' colori spenti. Ogni volta che l'uomo varcava quella porta, era come se venisse denudato della sua tranquillità e venisse incatenato ad un grosso peso.
<< Non dovresti venire se non ti fa piacere vedermi, James... >> disse Maria contrariata.
<< No, no. Sei la cosa più preziosa che ho, è solo che... >>
<< Solo che...? >>
<< Mi fa male vederti stare così. >>
Maria non la prese bene, ma preferì non inalberarsi di nuovo.
<< Pensi che io stia bene? Ogni giorno... ogni giorno sento che la mia ora si avvicina. I dolori aumentano, non riesco a dormire ad intervalli regolari, questa tosse è solo l'ultimo dei miei problemi. Guardo quel sole e penso a tutta la gente nel parco, che può sedersi su una panchina che può godersi il calore e l'aria pulita, mentre io sono qui, costretta a marcire su questo letto, aspettando che il fatidico giorno arrivi. Perché a me? Perché Non è giusto! Io... non voglio morire. Non voglio. Aiutami, ti prego.>>
<< Maria, io starò sempre con te. Cercherò una soluzione, te lo prometto. >>
<< Non voglio morire... >>
James, grazie all'ausilio della cartina, riuscì a focalizzare le migliori vie della località , ma non aveva ancora fatto i conti con le insidie che vi si trovavano.
Si accorse che la radio, che prima non dava alcun cenno di vita, cominciò ad emanare dei rumori, molto fastidiosi e chiassosi, che aumentavano progressivamente di intensità; tentò di regolarne la frequenza ma niente, il segnale era disturbato. Ma poco dopo non fu più la radio ad attirare l'attenzione del suo udito.
Egli si girò e vide delle ombre immerse nella nebbia, che emettevano versi sgradevoli e strani, ma soprattutto, non umani. Era terrorizzato, le sue gambe si rifiutavano di muoversi ed era senza fiato. Abominevoli mostri dalle raccapriccianti sembianze invasero le strade di Silent Hill e perfino il flebile suono del vento divenne violento, quasi come se la città avesse vita e quello rappresentasse il suo fiato.
Una di quelle aberrazioni cominciò a rigurgitare del strano liquido che corrose l'asfalto, mentre gli altri si avvicinavano senza sosta all'uomo, nonostante questo gridasse di non fare un altro passo di più.
Prima che potesse comprendere cosa stesse accadendo, la gambe di James si muovevano da sole e fuggirono più veloci che poterono, mentre questi esseri sbucavano da ogni vicolo. L'umano aveva studiato il tragitto, ma nella foga corse senza cognizione di causa e il caos prese il sopravvento.
<< Tesoro, sei venuto a trovarmi anche oggi? >>
James annuì con un sorriso tiepido e si sedette vicino al letto dove poggiava la ragazza.
<< Dovresti prendere un po' di tempo per te stesso... >> disse ella, cercando di spezzare la tensione.
<< Tu sei tutto quello di cui ho bisogno, Mary. >>
<< Mary? >>
<< … Chi è Mary? >>
<< Perché mi hai chiamato così? >>
<< Così come, Maria? Pensi che non sappia il nome di mia moglie?>>
<< Sì, hai ragione. >>
Maria cominciò a tossire violentemente. James le afferrò la mano, sussurrandole che andrà tutto bene.
<< Il dottore ha qualche novità? >> disse l'uomo, con un tono piuttosto spento.
L'espressione della ragazza mutò e divenne più agitata. << Secondo te? Niente! Sono senza speranza, non vuole dirmelo ma so che sono destinata a crepare su questo letto. >>
<< Non è vero, vedrai che troveremo una soluzione. >> Nemmeno lui credeva a ciò che diceva.
<< Stai zitto! Non essere patetico, guarda la verità in faccia. Ho una malattia sconosciuta che nessuno può curare, per me è solo una questione di mesi, forse giorni... e tu vorresti ancora alimentare le mie speranze con queste stronzate? VAI AL DIAVOLO JAMES! >>
James chinò il capo, si alzò dalla sedia e si diresse verso l'uscita.
<< Tornerò domani, sogni d'oro. >>
<< James, aspetta... >>
<< Cosa c'è, amore? >>
<< Scusami. >> disse la donna singhiozzando.
Fu una fuga scellerata. Ma contro ogni previsione, senza nemmeno rendersene conto, James arrivò al parco; la radio sembrava essersi nuovamente spenta e questo lo tranquillizzò. Egli camminò un po' attorno per esplorare il luogo e trovare degli indizi, la nebbia non era più così intensa e permetteva una visuale decente. La sua quiete si interruppe alla vista di un qualcuno, in lontananza. O forse un qualcosa. Sapeva che non poteva fuggire, che doveva trovare ciò che segnava l'appunto, anche se non aveva ben chiaro cosa fosse. Raccolse così un bastone e cercò di muoversi silenziosamente per cogliere il bersaglio di soppiatto.
Quando fu abbastanza vicino, si accorse che l'apparecchio elettronico non dava segni vitali.
<< Non sono uno di quei mostri, puoi riporre quell'arma. >> Da quella figura incappucciata proveniva una voce calda e suadente.
<< S-scusa... non volevo spaventarti. >> disse l'uomo imbarazzato.
Era una ragazza. Egli venne colpito dall'aspetto fisico, era veramente bellissima.
<< Mi chiamo James. James Sunderland. >>
<< Liberty, piacere mio. >>
<< Un nome poco comune, mi piace. >>
<< Ti ringrazio. Cosa ti porta in questo posto maledetto? >>
<< Io... sto cercando qualcuno. Mia moglie. Ma non l'ho ancora trovata. / James mostrò una foto di Maria. / E tu? >>
<< Io vivo qui. So che può sembrare pazzesco, ma questa è la mia casa e non ho alcuna intenzione di andarmene. >>
<< Sei impazzita? Come fai con i mostri? >>
<< Loro non mi attaccano, se la prendono solo con chi viene da fuori. Riguardo alla tua consorte... l'ho vista. Mi ha dato qualcosa per te. >>
Liberty consegnò una una busta a James, inoltre, gli diede un ciondolo, era a forma di piramide e disse che l'aveva trovato per terra e che non gli serviva.
<< Mi ha anche detto che la troverai all'ospedale, nel solito posto. Se non ti va di correre pericoli puoi sempre venire con me, ti posso assicurare che il letto di casa mia è confortevole, e lì nessuno potrà nuocerti... >>
James si ritrovò un po' disorientato dinnanzi a queste avance. Era stupenda, ma non stava cercando lei.
<< Meglio di no. Ora devo andare, ti ringrazio per l'aiuto. Addio. >>
<< Diciamo pure arrivederci. >> Liberty cominciò a ridere, mentre l'uomo si allontanava frettolosamente, cominciava a sentirsi a disagio. Quando si voltò, della donna non vi era traccia. L'unica cosa che il suo occhio scrutò fu una specie di cappello a forma di piramide. Questa visione lo terrorizzò a tal punto che decise di filarsela in fretta.
26-09-2012, 19:39
Dragon Slayer
Dopo aver corso per un po', James decise di leggere la lettera che aveva appena ricevuto. Era visibilmente rovinata e diversi paragrafi erano illeggibili, ma la calligrafia era quella di Maria.
Nei miei sogni irrequieti, vedo quella città, Silent Hill. Mi hai promesso che mi avresti riportato lì un giorno. Ma non l'hai mai fatto. Beh, ora sono lì da sola… Nel nostro “posto speciale. Aspettando te… Aspettando te che mi venga a trovare.
So di aver commesso una cosa terribile. Qualcosa per cui non mi perdonerai mai. Speravo di poterlo
cambiare, ma non ce l'ho fatta. Mi sento così patetica e brutta mentre resto qui, ad aspettarti… Ogni giorno fisso le crepe nel soffitto e tutto ciò a cui penso è quanto sia ingiusto tutto ciò…
Ogni volta che vieni a trovarmi, so quanto è difficile per te… Non so se tu mi odi o ti faccia pena… O forse ti disgusto solamente… Questo mi dispiace. Quando la prima volta ho scoperto che stavo per morire, non volevo accettarlo in nessun modo. Ero sempre arrabbiata e me la prendevo con le persone che amavo di più. Soprattutto con te, James. Ecco perché capisco se tu mi odi veramente.
Non posso dirti di ricordarmi, ma non posso chiederti di dimenticarmi. Questi ultimi pochi anni da quando mi sono ammalata… Mi dispiace così tanto per quello che ho fatto a te, che ho fatto a noi… Mi hai dato così tanto e io non sono stata capace di ricambiare neanche una piccola cosa. È per questo motivo che voglio che continui a vivere la tua vita adesso.
Una sirena risuonò nell'aria, ma non era un semplice allarme, sembrava un cancro che penetrava direttamente nel cervello. Sunderland si accasciò al suolo svenuto.
<< James, ho una cosa da chiederti, ma forse è meglio lasciar perdere. >> Maria abbassò lo sguardo.
<< Beh, ormai hai iniziato, e poi tra noi due non dovrebbero esserci segreti, non trovi? >>
<< Mi odi? >>
<< Cosa? >> James venne colto di sorpresa e non capì la domanda da quanto gli parve assurda.
<< Non mi hai risposto... Mi odi? >>
<< Come potrei odiarti? Io ti amo. Maria... tu sei la mia vita, non puoi dirmi una cosa del genere. >>
<< È proprio questo il punto. Se io sono la tua vita, è normale che tu mi possa odiare. Guarda come sono ridotta, sono uno spettacolo pietoso. >>
<< Non dire così. Sei bellissima. >>
<< Non lo so. Sento che tra noi due è cambiato tutto. So che ci tieni a me, ma vedo anche come fatichi ad accettarmi in questo stato. Non ti biasimo... ma non è colpa mia. Ti prego, amore mio, non abbandonarmi, non potrei mai perdonartelo. Io ho troppa paura. Ho bisogno di te. >>
James riprese conoscenza, e al risveglio la città era diversa. La nebbia si era volatilizzata, per far spazio ad un cielo oscuro, carico di terribili presagi di morte. Accanto a sé trovò una torcia elettrica, che gli permise di dissipare le tenebre. Non aveva idea di come fosse finita lì, ma questo non bastò a rasserenarlo, Silent Hill era divenuto un inferno in terra e la radio riprese a rumoreggiare con un'intensità maggiore.
La strada per tornare all'ospedale era tortuosa, piena di insidie. James presto si ritrovò alle costole un branco di abomini, difficile dire se fossero gli stessi di prima, ma forse era meglio non saperlo affatto.
L'uomo continuò a correre, sino a quando non trovò l'asfalto totalmente distrutto ed una voragine si stendeva davanti a lui. La via era bloccata. In lontananza si sentivano quei maledetti versi agghiaccianti che piano piano lo raggiungevano, mentre il rumore della radio non gli dava tregua. Avrebbe potuto spegnerla, ma quello sgradevole suono era il miglior campanello d'allarme che ci potesse essere, troppo utile per rinunciarvi..
Quegli incubi viventi erano sempre più vicini, non c'era tempo per pensare. Doveva agire in fretta.
James si buttò in un vicolo, era molto stretto, inoltre non ne conosceva la diramazione, ma corse comunque alla cieca. Farsi prendere dal panico era la peggior cosa possibile, ma in quel momento non poteva ragionare. James si infilò cunicolo dopo cunicolo, si avvicinò all'uscita, ma un mostro ripugnante gli apparve davanti, facendolo sbalzare all'indietro. James desiderava fuggire, ma sapeva che dall'altra parte avrebbe incontrato l'orda precedente. Decise così di raccogliere un bastone, ed attaccò con tutta la sua foga il nemico. Questo rispose emanando un gas nocivo addosso all'umano, quest'ultimo si sentì la pelle bruciare, ma raccolse le forze e lo colpì ancora. Ed ancora. Fino a quando la radio non tacque.
Dopo una corsa ai limiti della follia, James poté finalmente varcare le soglie dell'ospedale.
<< Amore... vai a casa. Non voglio che tu mi veda in questo stato. >>
<< Non voglio. Il mio posto è qui accanto a te. >>
<< Ma non stai bene qui... James, so cosa provi. >>
<< No, non lo sai. Io sono triste, vederti stare male è atroce per me, e proprio per questo non posso andarmene, sarei un codardo. Inoltre, sei stata tu a chiedermi di non abbandonarti. >>
<< Lo so, voglio che tu rimanga con me, ma... >>
<< Ma? >>
<< Mi sento in colpa. In colpa perché non devi soffrire a causa mia. Io ti sto privando della libertà, e me ne rendo conto. Io... sono così confusa. Non so più nemmeno cosa voglio. Sono un'egoista. Comprendo il male che ti sto facendo, ma non voglio comunque separarmi da te. >>
<< Non mi stai obbligando, rimanere qui è una mia scelta. Non devi crucciarti su questo. È vero, non è il futuro che desideravo per noi due. Avrei voluto che invecchiassimo insieme, che vivessimo felici insieme. Ma non è andata così. E non riesco ad accettarlo. >>
<< Io ti capisco, però non voglio fare la sua stessa fine... >>
<< Di chi? >>
Il piagnisteo della donna si interruppe, la sua voce divenne minacciosa, e con uno sguardo intenso fulminò il marito.
<< Non osare dimenticarmi come hai fatto con lei. >>
L'interno della struttura pareva abbandonato ed in rovina. James ispezionò il piano terra ma la maggior parte delle porte erano chiuse, ad eccezione dell'ufficio. All'interno non c'era niente che valesse la pena di prendere, e dopo il rapido controllo decise di andarsene. Prima di aprire la porta però notò dei referti medici, riguardavano i pazienti ma erano praticamente illeggibili. Uno però non solo era comprensibile, ma contrariamente a tutto il resto sembrava fresco, stampato di recente.
“Frank Sheperd. Pregiudicato accusato di omicidio doloso, presenta una patologia mentale molto rara. È una persona apparentemente gentile e timida, ma presenta forti crolli emotivi che lo rendono instabile. È la seconda volta che viene incolpato dello stesso delitto.”
L'ascensore non dava segni vitali, ergo James decise di salire le scale ed arrivò al terzo piano, ma visto che la porta era chiusa a chiave optò per il secondo. Qui il terrore tornò a fargli visita, la sua radio s'accese e all'improvviso uno strano essere si scagliò verso di lui con camminata impacciata e cadenzata. Le sembianze erano quelle di un'infermiera, ma il volto era totalmente sfigurato. James si fece coraggio e stordì quella sottospecie di donna con il bastone, per poi afferrare il coltello che impugnava. James la infilzò con la lama alla tempia, ma ricevette un colpo dietro la schiena. Trascinandosi dolorante si allontanò il più possibile e solo dopo essersi voltato vide che era stata un'altra infermiera a colpirlo. L'uomo indietreggiò e si ritrovò con le spalle al muro. L'infermiera non accennava a fermarsi, il suo istinto omicida palpitava nell'aria e le parole non sarebbero valse a nulla. L'uomo decise di scattare in avanzi per aggirarla, ed ella provò a colpirlo. La schivò per un pelo, raccolse il coltello e la pugnalò un paio di volte. Finalmente quel fracasso distorto finì e poté tirare un sospiro di sollievo.
James esplorò un po' il corridoio, cercando di evitare le stanze dove si poteva avvertire il suono della frequenza e spegnendo la torcia per non attirare l'attenzione, sino a quando non trovò le chiavi delle scale in uno sgabuzzino.
<< Come potrei dimenticarmi di te? >>
<< Lo hai già fatto. >>
<< Maria, non ti seguo, cominci a farmi paura... >>
<< Scusami caro, è che la testa mi pulsa. Non voglio litigare. >>
Sunderland spostò la sedia e si inginocchiò vicino alla moglie, le accarezzò i capelli e le asciugò le lacrime.
<< Io e te ne abbiamo passate tante insieme. Ricordi quella volta in vacanza, quando abbiamo perso le chiavi dell'albergo in piena notte e siamo rimasti chiusi fuori sino all'alba? >>
<< Come potrei dimenticarlo. Sei uno zuccone. Non chiudi mai a chiave l'auto. >>
<< All'inizio era abbastanza spaventoso, lo ammetto. Io cercavo di rassicurarti, ma forse ero io quello che ne aveva più bisogno. / Maria sorrise con l'aria nostalgica / Poi ci siamo seduti in riva al lago, e abbiamo osservato i riflessi lunari sullo specchio d'acqua. >>
<< Fu così romantico. >>
<< Dovremmo tornarci. >>
<< Sarebbe bello. Ma mi basta che tu sia qui ora, con me. >>
Arrivò così al terzo piano. Non sentiva alcun frastuono, pertanto proseguì senza troppi indulgi sino a quando non trovò dinnanzi a sé un manichino, era di sembianze femminili e privo di testa. James si avvicinò, accese la luce e venne trafitto superficialmente da esso. L'uomo prese nuovamente il pugnale ma aveva remore ad avvicinarsi, gli attacchi di quella cosa erano troppo veloci, rimpiangeva di aver buttato via la mazza, meno letale ma quantomeno con un raggio d'azione più ampio.
Ma non poteva fermarsi lì. Sentiva che la fine del suo pellegrinaggio era vicina, le risposte che cercava lo attendevano e che l'unico modo per ottenerle era abbattere questo ostacolo.
Preso dalla disperazione, mentre il manichino tentava di colpirlo, Sunderland gli lanciò il pugnale addosso, atto che lo atterrò mentre si dimenava dal dolore e che permise a James di finirlo con dei pestoni.
26-09-2012, 19:41
Dragon Slayer
<< Signor Sunderland, posso parlarle un attimo? >>
<< Dottore, mi dica... ha novità su Maria? >>
<< In questo momento sua moglie non può ricevere visite, ha la febbre molto alta. >>
<< Oddio oddio... rischia di morire? Non può, non ora... >>
<< Sua moglie ha buone possibilità di sopravvivere, difatti siamo riusciti a trovare una cura, per così dire. >> disse l'uomo in camice, con espressione seria.
<< Davvero? >> il marito non poteva contenere l'entusiasmo, era la miglior notizia che potesse sentire.
<< Signor Sunderland, la prego di ascoltarmi attentamente. La paziente ha subito un grave deterioramento dell'apparato immunitario e purtroppo i danni sono irreversibili. Vivrà, ma non sarà mai più come prima. Dovrà seguire una dieta rigida e regolamentata, dovrà prendere diversi farmaci quotidianamente e non potrà assolutamente avere rapporti fisici.
Non potremo tenerla in questa struttura ulteriormente, dovrà essere lei a prendersene cura. >>
<< Ho capito, la ringrazio. >>
James se ne andò, senza nascondere le lacrime che scorrevano a fiumi sulle sue guance.
Ormai stanco e ferito, l'uomo raccolse il coltello e si incamminò verso una delle stanze dell'ospedale, quasi come se sapesse già dove fosse diretto. La porta era chiusa, e non presentava nemmeno una maniglia. James però notò una strana cavità accanto ad essa, aveva una forma triangolare, e provò ad infilare il perdente che gli era stato donato. Un meccanismo si attivò, l'entrata era libera.
<< James, hai fatto tardi oggi. >>
<< M-Maria? >>
La solita stanza ospedaliera. Il solito letto. E la sua moglie malata ad aspettarlo. Pochi attimi prima era convinto di essere nelle viscere degli inferi ed ora si ritrovava lì. Ma quella camera non gli procurava affatto sollievo, anzi, forse era proprio quello il girone finale della sua caduta, il punto di arrivo.
<< Non sei cambiato affatto. Lurido porco. >>
<< Perché dici questo? >>
<< Sei venuto per finirmi. Come hai fatto con lei. >>
<< Cosa stai farneticando? >>
<< Dimmi James, da quanto tempo non facciamo sesso? >>
L'espressione stordita dell'uomo cambiò, e il suo tono divenne più aggressivo.
<< Mi stai provocando? >>
<< Era solo una domanda. Insomma, tu hai detto che mi ami, no? Che rimarrai al mio fianco ad ogni costo... quindi immagino che la castità non sia un peso per te. >>
<< Dannazione, è ovvio che lo sia. Ma per te posso rinunciare... >>
<< Oh certo. Ricordo benissimo cosa facesti con Mary. Quando si ritrovò in una situazione simile, la abbandonasti per un'altra per poi segregarla nei recessi della tua mente, eliminandone ogni ricordo. >>
<< Lei non c'entra niente, io... aspetta... >>
<< Finalmente la ruota comincia a girare.. Secondo te quella lettera l'ho scritta io? >>
La psiche di James andò in frantumi. Chi era Mary? E chi è Maria?
<< Tu la amavi. Ma non potevi più sopportare quella situazione, quell'agonia che lacerava l'animo di entrambi. Tu l'hai uccisa. >>
James divenne furibondo e calciò con violenza una sedia.
<< È vero, l'ho uccisa. E non voglio giustificarmi, ho già affrontato tutto questo. Ora ricordo tutto.
Io sono già stato messo alla prova da Silent Hill, ho affrontato i miei spettri del passato e ho vinto.
Non era un omicidio, il mio era un atto di eutanasia. >>
<< Menti, e lo sai meglio di me. Altrimenti ora non sarei qui, a patire la stessa sorte della tua defunta moglie. Tu volevi che Mary tornasse tra le tue braccia, e Silent Hill ti ha dato me. Io sono la tua Mary, ne rappresento la carnalità. Tu stesso mi hai scelta. Ma non fraintendere, non sono una semplice pedina, non sono solo uno scherzo del tuo subconscio. Io sono un essere umano, come lo è stata lei. E ti amo, James. E anche io mi scuso per il male che ti ho fatto. >>
<< Maria, io... ora capisco. Sei sempre stata la mia tentazione. Mi hai provocato, mi hai offerto il tuo corpo, e io invece di convivere con i miei peccati ho scelto la via più semplice, fuggendo dalle mie paure. Ma questo non cambia il fatto che ora amo te, e non possono portarti via da me! >>
<< Io non devo andare da nessuna parte. Lo hai sentito il dottore, no? Posso rimanere con te. Ma non potremo più scopare. Non potrai più baciarmi. Dovrai badare a me e alla mia salute precaria. È un grosso peso, James. Sei disposto a sopportarlo? Oppure mi getterai via e troverai un'altra, come hai fatto con Mary? Scegli l'amore, o la libertà?>>
<< Io... >>
<< Non serve che rispondi. La tua risposta giace nel pugnale che stringi sempre più forte nella mano. Avanti, compi il tuo destino e abbraccia la tua presunta redenzione. >>
La stanza mutò e si uniformò con il resto dell'ospedale. Il metallo venne corroso dalla ruggine, mentre enormi crepe si formavano sul soffitto.
La testa di Maria giaceva al suolo, mentre un fiume di sangue si estendeva a macchia d'olio sul pavimento, zampillando dal collo mozzato. Il coltello che James brandiva era divenuto un'enorme mannaia macchiata di rosso, talmente pesante che l'uomo faticava a trascinare.
James guardò il cadavere mutilato di Maria, si stese sopra di esso, e dopo avergli strappato i vestiti lo stuprò. Senza emozione. Senza vergogna, sesso meccanico e naturale.
L'uomo, privo delle sue vesti, con sguardo spento prese l'enorme spada e si diresse verso l'uscita dell'ospedale. Nessuno gli si parò contro, i mostri quando avvertivano lo stridio della lama sul pavimento scappavano in preda alla paura, come se fosse il trillo del diavolo.
All'esterno, c'era una sua conoscenza ad attenderlo.
<< Il destino si è compiuto, James Sunderland. Ma ormai è inutile che ti chiami per nome, la tua identità è morta in quella camera, e tu ne sei il carnefice.
Ti è stata data la possibilità di redimerti, ma non hai saputo combattere contro la tua vera natura.
Hai peccato, e cosa ben peggiore, sei fuggito dai tuoi errori senza accettarne la pena. La tua condanna è l'isolamento in questa città fantasma. Ora Silent Hill è anche la tua casa. >>
James tese la mano verso Liberty, che si avvicinò a lui.
<< Starai per sempre con me, ma non mi avrai mai. Io sono la libertà, e tu sei in prigione. >>
La ragazza scomparve nel nulla, mentre l'uomo riprese a camminare trascinandosi dietro quell'enorme arma, la sua palla al piede. Il suo voltò mutò e divenne una piramide, che svanì nella nebbia eterna della cittadina.
26-09-2012, 21:08
Light 96
Il rosso spacca gli occhi, lo puoi cambiare?
26-09-2012, 21:23
Dragon Slayer
Il rosso è simbolico, non posso cambiarlo, ho optato per una tonalità più scura.
26-09-2012, 22:02
XD forever
Citazione:
Originariamente Scritto da Il Nicco
Mi è venuta adesso un'idea sfruttabile ma sicuramente non potrò connettermi fino a domani sera. Posso chiedere una proroga di un paio di giorni per poter scrivere e ricontrollare?
Per me và bene! Sentiamo anche gli altri
PS:riguardo TDK..no mio problema!XD
26-09-2012, 23:02
TOB
SUFFERED CROSSROADS
«Go-han! Go-han! Go-han!»
La folla era in visibilio.
D’altronde, come biasimarla? Quell’edizione del torneo Tenkaichi fu a dir poco sensazionale. Sin dalle eliminatorie spiccarono per forza e destrezza numerosi combattenti di evidente talento: impossibile rimanere apatici di fronte allo spettacolo esibito dalle abilità difensive di Japan Shield, capace di incassare il più violento dei colpi senza accusare alcun dolore, né può passare inosservata l’estrema agilità di Rabbit Man, esile omuncolo in grado di evitare qualsiasi situazione spiacevole semplicemente saltando a più di venti metri d’altezza dal suolo. Per non parlare di Ugo, il cui solo pugno può mandare in frantumi un blocco di marmo spesso circa un metro.
Tuttavia, in fin dei conti, atleti del genere si potevano trovare ad ogni edizione del torneo.
Ciò che davvero rese memorabile quel Tenkaichi fu il suo scontro finale.
I combattenti che stavano contendendosi il titolo di campione del torneo d'arti marziali più famoso del globo se ne rimanevano immobili sul ring, uno di fronte all’altro, intenti a studiarsi vicendevolmente. Le urla degli spettatori non potevano distrarli; mantenere la concentrazione era fondamentale.
Le voci crebbero d’intensità.
«Go-han! Go-han! Go-han!» Diamine, sono in evidente svantaggio. Che posso fare? pensava il giovane combattente con preoccupazione.
Erano passati parecchi minuti da quando il direttore di gara aveva sancito l’inizio della battaglia, e i due contendenti fornirono subito prova delle loro grandi capacità. Nessuno al mondo avrebbe negato che il vecchio Muten sarebbe giunto in finale e, infatti, la predizione si rivelò esatta; ma la vera sorpresa fu guardare quel giovane sconosciuto riuscire a tenergli testa. Il leggendario Eremita della Tartaruga non riusciva a sovrastare l’avversario come suo solito, anzi, sembrava decisamente impegnato nel menare pugni a destra e a manca e nello sfoderare ad ogni piè sospinto una nuova tecnica che Gohan puntualmente riusciva in qualche modo a contrastare. Il giovane riuscì persino a lanciare con disinvoltura una Kamehameha, sino ad allora rimasta un’esclusiva di Muten in persona.
Insomma, il pubblico provò un’istintiva simpatia per quel talentuoso ragazzo, tanto determinato da arrivare a mettere a rischio la corona d’imbattibilità del suo temibile avversario.
Ma le cose si stavano mettendo peggio di quanto apparisse per il nostro beniamino.
Gohan, in posizione di guardia, non staccava gli occhi di dosso al suo maestro, sperando che rimanesse anche lui immobile per qualche altra manciata di secondi, o almeno per quel tanto che bastasse a permettergli di riprendere fiato. Infatti, sebbene il giovane cercasse di non darlo a vedere, lo scontro l’aveva notevolmente sfiancato e dubitava di poter resistere ancora a lungo. Gli spettatori non sembravano essersi accorti di tali difficoltà, cosa presumibile dal fatto che continuavano ad incitare l’allievo come si fa con un probabile vincitore. Devo trovare il modo di concludere alla svelta, rifletté fra sé e sé Gohan, o non avrò più alcuna speranza di poter sconfiggere il maestro. Molto bene, vorrà dire che utilizzerò nuovamente la Kamehameha, attingendo alle ultime energie che mi sono rimaste.
È ora di tentare il tutto per tutto; sta in guardia, maestro Muten!
Gohan congiunse i polsi, dopodiché ritrasse le braccia e si preparò all’attacco.
In quello stesso momento, vide qualcosa che lo turbò al punto da paralizzarlo dalla testa ai piedi.
Un piccolo volto fece capolino fra la folla di spettatori, alle spalle di Muten. V’era stampata un’espressione seria e composta, sebbene tutt’intorno si stesse dimenando una folla a dir poco esultante. Lunghi capelli dorati ricadevano su un paio di spalle delicate, e due grossi occhi verdi erano messi in risalto da folte ciglia corvine.
Una lacrima scivolò su una delle guance, prima che il viso sparisse nella confusione degli spalti.
Gohan non poteva credere a ciò che i suoi occhi avevano appena visto. Ash…
Nel frattempo Muten, ormai consapevole del fatto che il suo allievo aveva intenzione di rompere la tregua cui erano giunti, non si perse d’animo ed assunse una posa alquanto inusuale. Le palme delle sue mani erano adagiate l’una sull’altra e poste di fronte al volto, come se stesse pregando, e lampi di luce scaturivano da tutte e dieci le dita a mo’ di saette.
«Sei stato un degno avversario, Gohan» gridò il vecchio nel tentativo di sovrastare gli schiamazzi della folla, «e devo ammettere che il mio corpo sta iniziando ad avvertire qualche accenno di fatica. Nessuno era mai riuscito a resistermi così a lungo, ragazzo mio, sono proprio fiero di te. Sappi che questo scontro non è altro che l’inizio del tuo percorso da guerriero: esistono innumerevoli individui più forti di entrambi noi due, e devi ancora maturare appieno le immense potenzialità di cui sei dotato. La via del combattente è senza fine, c’è sempre un margine di miglioramento a cui puntare, e non bisogna mai accontentarsi dei risultati raggiunti. Tienilo bene a mente.
«Per dimostrarti a cosa porta la vera perseverazione, non mi resta che sfoderare la mia tecnica migliore. È l’abilità a cui tengo di più, ottenuta dopo lunghissimi anni d'intenso allenamento. L’ho nascosta per molto, troppo tempo, ed è giunta l’ora di ridestarla dall’oblio in cui è caduta.
«Ecco, Gohan, il potere cui dovrai puntare in futuro!»
Ma il giovane atleta non stava neanche seguendo il filo del discorso.
Il suo sguardo era perso dietro le spalle del maestro, chissà dove in mezzo al pubblico.
Muten inarcò un sopracciglio, incuriosito, e si voltò. «Ma che diavolo stai guardando? Hai scorto una bella ragazza per caso? Dov’è? Dov’è, figliolo?»
Il mondo intorno a Gohan s’era ammutolito.
I suoi occhi si muovevano freneticamente in ogni direzione, alla ricerca della ragazza che poco prima era comparsa sulle gradinate dello stadio. Nient’altro contava in quel momento, tantomeno il blaterare del suo maestro. Era davvero lei? No, non può essere…
Perché mai sarebbe dovuta arrivare sin qui? Non vorrà di certo rivedermi, considerando che sto prendendo parte ad un torneo di arti marziali. Uhm, non riesco a trovarla, devo averla immaginata. Dannazione, a quanto pare non riesco proprio a togliermela dalla testa…
Di fronte a Gohan, l’espressione di Muten si fece furibonda. Non c’era nessuna ragazza formosa sugli spalti.
«Non cercare di distrarmi con quel tuo atteggiamento incurante, non è così che eviterai lo scontro! Forza, combatti! Non ti ho insegnato a fuggire davanti ad un ostacolo, piuttosto affrontalo da uomo!»